Il ritorno nelle librerie di Fabrizia Ramondino è un atto dovuto verso una delle scrittrici più brillanti del Novecento italiano e riporta finalmente l’attenzione di lettrici e lettori sull’intellettuale cosmopolita, la profonda conoscitrice di Napoli e del suo tessuto sociale, la narratrice raffinata amata già da Morante e Ginzburg. Fu proprio Morante a promuovere l’esordio per Einaudi nel 1981, quando Ramondino aveva già una lunga attività di autrice, insegnante e attivista alle spalle. Hanno definito tardiva la sua produzione, ma l’età non dovrebbe essere un fattore di merito. Amica di Fofi, ha scritto anche per il cinema con Mario Martone. Sua la firma sulla sceneggiatura di “Morte di un matematico napoletano”, sempre sua l’idea di mostrare a Martone un romanzo appena uscito, un certo “L’amore molesto”, che anticipava l’altra immensa scrittrice italiana, Elena Ferrante, e che Martone trasformò in film nel 1995. Nel giugno 2021 Napoli ha ribattezzato le scale della salita Pontecorvo con il suo nome, ricoperte, poi, di vernice la notte stessa dell’inaugurazione e ripulite il giorno dopo. Quelle erano le strade di Ramondino, a festeggiarla i “suoi” bambini, la figlia, gli amici: la targa le spetta di diritto.
Dopo più di dieci anni di assenza, Fazi editore riporta Ramondino nelle librerie con “Guerra di infanzia e di Spagna”, inizialmente pubblicato da Einaudi nel 2001.
Il romanzo
In “Guerra di infanzia e di Spagna”, romanzo ampiamente autobiografico, Ramondino racconta gli anni che da bambina ha vissuto nell’isola di Maiorca, in cui il padre ricopriva il ruolo di console italiano. Nel romanzo la data è precisa, partono il 13 febbraio 1937, e lì Titita, la protagonista alter ego dell’autrice, e la famiglia vivono fino al 1943. Ramondino aveva già accennato all’infanzia in “Althénopis”, ma in “Guerra di infanzia e di Spagna” ritorna su quei ricordi e inventa una voce narrante nuova che racconta in prima persona luoghi, vicende e crescita. È il console Luigi Ferdinando Baldaro ad aprire il romanzo con la famiglia al seguito nel porto di Napoli. Salutano la balia di Titita e questa porge alla bambina «l’effigie della Madonna Nera, la miracolosa Madonna dell’Arco, chiusa in un sacchettino di tela rossa piegata in otto». Solo in questa descrizione, nella primissima pagina del romanzo, c’è già tutta Napoli, anzi il Sud intero e quel suo concetto particolare di religiosità che confina con la scaramanzia.
All’arrivo sull’isola inizia la vita di Titita in un’isola magica e densa di natura meticolosamente registrata dalla penna di Ramondino e trasformata in descrizioni abbondanti e gioiose, talvolta contaminate dalla fantasia di Titita, altre volte ricche di valori simbolici (si pensi al capitolo “Il palazzo” in cui il collegio in cui viene accolta Titita, viene ricostruito pezzo per pezzo attraverso i cinque sensi). Sono descrizioni che elevano il quotidiano e lo filtrano attraverso gli occhi della protagonista e dell’autrice in una sintonia perfetta. Di Maiorca Ramondino descriverà anche le persone e la lingua, caposaldo della sua poetica: lei venera la lingua italiana, si appassiona ai dizionari, ma la sua formazione sarà più ampia perché contaminata dal catalano, che parlerà coi genitori, il dialetto maiorchino, la lingua della bambinaia e dei dipendenti a servizio nella casa, e poi francese e tedesco nell’età adulta. In questo romanzo l’amore per le parole è evidente, ma anche fonte di contraddizione e ispirazione per l’immaginazione di Titita, bambina portentosa ed eterna, ottimamente radicata in un preciso contesto storico, quello che fa capolino ogni tanto nelle pagine e che preparava l’Europa alla Seconda guerra mondiale. Ma la capacità di Ramondino di contestualizzare una rappresentazione fittizia della sé bambina in quel contesto concitato è straordinaria. E di Titita non c’è solo una psicologia precisa, ma anche una dimensione immaginifica che meraviglia lettrici e lettori. Lo sottolinea Nadia Terranova nella prefazione di quest’edizione, lo si rileva anche nelle altre opere di Ramondino che ha dato uno spessore tutto personale alla psicologia delle sue donne, dei suoi personaggi amatissimi, che nessuno scrittore avrebbe mai potuto raccontare.
Mis(S)conosciute e Fabrizia Ramondino
Ho conosciuto Fabrizia Ramondino grazie a Mis(S)conosciute – Scrittrici tra parentesi, un podcast letterario dedicato alle scrittrici degli ultimi sessant’anni di letteratura internazionale, nonché una newsletter sulla stessa tematica nata nel 2021. Il progetto è a cura di Giulia Morelli, Maria Lucia Schito e Silvia Scognamiglio e sfida la disparità di genere anche nella letteratura e nella critica. Mis(S)conosciute racconta e riscopre autrici, e il loro lavoro, in un mondo interamente maschile che ignora anche per pregiudizio. È proprio partendo dalla puntata su Ramondino che dialoghiamo sulla poetica dell’autrice e del ritorno alle stampe di “Guerra di infanzia e Spagna”.
Quanto è centrale la componente autobiografica per Fabrizia Ramondino? Con la scrittura sappiamo che ha affrontato i traumi personali, come fosse la sua personale terapia, ma ha senso cercarla in ogni lavoro o tutto è più ampio del livello autobiografico?
Fabrizia Ramondino è una scrittrice che ha fatto del racconto autobiografico una cifra stilistica: la sapiente mescolanza di ricordo e immaginazione, di memoria e letteratura produce il particolare universo narrativo dell’autrice. E considerando la vita che ha avuto, ricca di vicissitudini ed esperienze, multiforme geograficamente e storicamente, testimone di momenti cardine della storia del paese e dei cambiamenti politici e sociali del suo tempo, attingere alla propria ricca biografia deve sicuramente esserle sembrato d’obbligo, anche per via delle tante figure carismatiche che hanno costellato il suo percorso.
Nel caso di Ramondino, la vita si fa scrittura e trova in essa un ordine, un senso, forse un significato, e nel diventarlo si eleva da mera cronaca di fatti accaduti e si tramuta in qualcosa di più: in letteratura, in racconto che da particolare riesce a diventare altro abbracciando significati e storie universali, in grado di fotografare un’epoca storica da un particolare punto di vista, quello della scrittrice.
Per chi cerca di rimettere in primo piano la voce delle scrittrici, come facciamo noi con il progetto Mis(S)conosciute – Scrittrici tra parentesi, ritrovarle tra le pagine che scrivono è prezioso e utile per conoscerle e raccontarle: imbattersi nella storia letteraria dell’autrice nel leggere un romanzo è uno dei motivi che ci spingono a sceglierla per raccontarla. È stato così per Elizabeth Smart, per Ahdaf Soueif, per Sarah Kane: le abbiamo viste vivere le loro vite letterarie e muoversi tra le pagine. D’altra parte la letteratura è sicuramente qualcosa di più, che può fare a meno della vita vera di chi l’ha scritta, come ricorda un’altra celebre e per nulla Mis(S)conosciuta autrice napoletana:
«Io credo che i libri non abbiano alcun bisogno degli autori, una volta che siano stati scritti. Se hanno qualcosa da raccontare, troveranno presto o tardi lettori; se no, no. […] Mi è rimasta questa voglia infantile di meraviglie, piccole e grandi, ci credo ancora».
L’autrice si chiama Elena Ferrante e questa dichiarazione è tratta dalla raccolta “La Frantumaglia”: le pagine di Ferrante sarebbero forse diverse se riuscissimo a leggervi la vicenda biografica dell’autrice? Probabilmente no. I libri di Fabrizia Ramondino sarebbero meno importanti, meno significativi, meno “belli”, se ignorassimo la vita vissuta dall’autrice? Probabilmente no.
Cosa c’è della sua poetica che individuate in “Guerra di infanzia e Spagna” e cosa c’è di simbolico nel ritorno dell’isola che è ricorrente nella sua produzione?
“Guerra di infanzia e di Spagna” è uno dei romanzi più lunghi di Fabrizia Ramondino, pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 2001 quando la scrittrice ha 65 anni e 25 anni di carriera letteraria alle spalle, in cui ha prodotto narrativa, saggistica, sceneggiature cinematografiche e testi teatrali. La scrittura di questo libro è matura, Ramondino ha preso piena coscienza di sé, del proprio stile narrativo, è padrona dei topos letterari che le sono propri e, a una lunga distanza temporale, filtra attraverso la letteratura i ricordi della propria infanzia. E nel suo passato c’è, innanzitutto, un’isola – anzi – delle isole, reali e non. Maiorca, il mondo chiuso del paesino della penisola Sorrentina durante gli anni della guerra, l’isola di Capri al di là del golfo resa scenario di immaginarie battaglie tra pirati come una Tortuga di Salgari e, più avanti, Ventotene, Ischia, la Procida dell’Isola di Arturo di Morante.
L’isola, nella poetica di Ramondino, quindi, da reale si fa luogo spirituale: isole di avventure incantate, luoghi ideali in cui isolarsi, isole di solitudine in cui affrontare la depressione (in un libro del ’98, L’isola riflessa, scrive «L’isola è deserta – io stessa lo sono») e ritiri solitari in cui far fluire la scrittura e la letteratura.
È in un’isola che il ricordo si fa scrittura: negli anni ’90 infatti Ramondino si trasferisce ad Itri, la cittadina sulla costa laziale che elegge a propria isola privata. È tra le mura di questa casa vicino al mare che Ramondino si fa più prolifica e produce la maggior parte delle sue opere letterarie. È qui che Guerra di infanzia e di Spagna è stato scritto: il romanzo ambientato in un’isola geografica prende vita nell’isola ideale e solitaria che Ramondino si costruisce, una stanza tutta per sé in cui far fluire parole e ricordi.
L’isola come topos letterario è quindi, forse, simbolo di un ritorno che si realizza grazie alla scrittura e del senso di appartenenza che essa è in grado di generare: «Questo, solo questo, sempre, è l’unico luogo che mi appartiene anche se sto male. Il quaderno, la mia piccola isola».
Che donne troviamo nelle protagoniste di questo romanzo e che donne ha raccontato Ramondino?
Nella sua letteratura, le donne sono le protagoniste indiscusse: non sono soltanto frutto dei ricordi del passato ma diventano personaggi che rappresentano diverse sfere dell’universo poetico di Ramondino. Ad esempio, Dida, la balia maiorchina, ricordo dolce dell’infanzia, è al tempo stesso simbolo di quella classe sociale più bassa, povera e umile contrapposta alla borghesia della madre Pia Mosca, che porterà poi Ramondino da adulta a interessarsi alla causa dei più oppressi dalla società. La madre, cosmopolita e colta, è anche la donna con cui si instaura il rapporto più complicato: fonte di vita e perciò di conflitto, l’analisi e il racconto di questo legame corre lungo tutta la produzione ramondiniana.
La nonna materna Luciana, personaggio quasi magico, mitologico, rappresenta sia l’atto creativo – lo stimolo a scrivere e a rendere tangibili le storie di famiglia – e, soprattutto, il legame con la città di Napoli: raccontando della nonna, Ramondino getta luce sulle caratteristiche di una terra e di un popolo unici al mondo.
Il libro che però può essere definito il più “femminista” di Ramondino è “Passaggio a Trieste”, un diario di bordo che racconta le storie delle donne ospiti del Centro Donna Salute Mentale di Trieste: grazie a loro avviene per Ramondino la maturazione di un pensiero critico generale sul malato mentale e sul trattamento che gli viene riservato dalla società.
In questo romanzo Napoli fa capolino nei racconti della nonna di Titita e nel breve periodo di ritorno in Italia. Ma cosa è stata Napoli per Ramondino? Cito da un’altra delle sue opere, “Star di casa”:
«E fuggendo Napoli, per inseguire un Nord mitico, che quasi sempre non oltrepassava Roma, [i giovani intellettuali napoletani] venivano a loro volta inseguiti da Napoli, come da una segreta ossessione. Ché Napoli usa seguire i suoi concittadini dovunque, come un’ombra, se si trasferiscono altrove…. Così Napoli, dove è così difficile vivere e che invoglia tanto a partire, che è così difficile abbandonare e che costringe sempre a tornare, diventa, più di molti altri, il luogo emblematico di una generale condizione umana nel nostro tempo: trovarsi su un inabitabile pianeta, ma sapere che è l’unico dove per ora possiamo star di casa.»
Fabrizia Ramondino è nata a Napoli, ma una connessione vera con la città la instaura in là nel tempo: negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, seguendo il peregrinare continuo dei genitori e, successivamente, un personale itinerario di “fuga” al nord, ha trascorso pochi anni nel capoluogo campano.
Il cordone ombelicale con la città è però saldo e alla fine degli anni ’50 decide di tornare: non sceglie la Napoli bene, la Napoli della nobiltà decaduta e della borghesia nascente, bensì si stabilisce nel ventre cittadino, dove sviluppa pienamente il suo impegno politico e sociale. È al centro di Napoli che sceglie di crescere la figlia Livia, è qui che si trova quando il tragico terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980 distrugge la città, e la cui traumatica esperienza confluisce nel libro Star di casa.
Napoli è lo sfondo e il presupposto di molta produzione letteraria di Ramondino. Leggendo di questa città nella sua opera sembra quasi di trovarsi di fronte a un altro membro della famiglia: uno di quei rapporti familiari complessi, sfaccettati, stratificati, ricchi di contraddizioni, caratterizzati da affetto e repulsione, fastidio e fascinazione, voglia di stare insieme e desiderio impellente di fuggire.
Ramondino nella sua opera racconta la città, scava in questo rapporto complicato, dipingendo questo luogo mitico – dove religioso e pagano si mescolano inestricabilmente – enigmatico, insidioso, violento, accogliente e invadente, che conquista e ammalia. Napoli è una città dal fascino unico, luminosa e oscura, bellissima e al contempo degradata, come osserva in un brano di Guerra di Infanzia e di Spagna la nonna Luciana, raccontando di quando da ragazza ammirava durante le gite in barca la città stesa sul mare, sorprendendosi dinanzi allo spettacolo che tramutava il caos in meraviglia. Napoli è una malia, e per resisterle bisogna fuggire, come fa Fabrizia in diversi momenti della sua vita, per poi però, alla fine, sempre ritornare.
Ramondino ha spaziato nei generi, è stata impegnata nel sociale, ha scritto per il cinema, ha scritto articoli, ha raccontato il Sud e la sua Napoli non senza tribolazioni, ma perché Ramondino nelle letterature non c’è? È sintomatico di come le scrittrici vengono considerate in Italia o solo una sfortunata coincidenza?
Purtroppo non crediamo che sia solo una sfortunata coincidenza: non a caso nel nostro progetto parliamo di scrittrici “fuori” dal canone, non (solo) perché eccezionali, ma perché letteralmente ignorate dal canone letterario. Ci poniamo spesso questa domanda: perché le scrittrici non ci sono? Eppure, a partire dalla seconda metà del ‘900 la scena letteraria italiana è mutata, il numero delle scrittrici è diventato pari a quello degli scrittori. È però mancato, e in parte manca tuttora, il riconoscimento formale dell’importanza del ruolo delle scrittrici.
Ma dove avviene questo riconoscimento? Laddove si forma il canone: e quindi tra i banchi di scuola, nelle aule universitarie, nella ricerca, nei festival, ai premi letterari, tra le pagine di critica letteraria. E cosa ci dice lo stato dell’arte? Che nei manuali scolastici alle scrittrici è dedicato non più di un trafiletto (spesso riservato a Elsa Morante), che nei programmi universitari di letteratura italiana contemporanea si studiano per il 90% scrittori e per il 10% scrittrici, che nel 70% dei corsi offerti non è presente nemmeno una scrittrice né si studia critica femminista, che a parità di successo di pubblico, gli scrittori sono più presenti delle scrittrici nelle recensioni, nei festival e nei premi letterari (basta guardare al Premio Strega: dal 1947 ad oggi hanno vinto solo 11 scrittrici). Insomma, il discorso da fare sarebbe lungo e articolato: quel che è certo è che questo canone va reinventato e ri-codificato, includendo le voci delle scrittrici davvero troppo poco note che noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di far ascoltare.
Risorse utili
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Questa la puntata su Fabrizia Ramondino.
Libri: Le vite degli altri abito la mia, di Paola Nitido
Paper: Napoli e le scrittrici “napoletane” in Inghilterra. Alcune riflessioni teoricometodologiche, a partire da Fabrizia Ramondino, Adalgisa Giorgio