Spero perdonerete la repellente auto-marketta, ma la sensazione che rimane dopo i tre giorni di Express, il bel festival organizzato e ospitato dal Locomotiv di Bologna, è che, come scritto solo qualche giorno fa su queste pagine, la musica improvvisata – chiamatela jazz o come vi pare – goda davvero di ottima salute. Una constatazione che potrebbe sembrare paradossale, considerando che, dei tre headliner del festival – Tortoise, Adriano Viterbini e Mulatu Astatke – solo quest’ultimo può rientrare a pieno titolo nei canoni stilistici e interpretativi del genere. A rischio di essere smentito clamorosamente, mi sento però di dire che una line-up così variegata nasconde in realtà una scelta ben precisa da parte degli organizzatori: presentare tre approcci vivi e vegeti, attuali, nel bene e nel male, ad una musica, quella dei Duke Ellington e dei Mingus, che credevamo troppo colta, e quindi morta, ma che ha in realtà dimostrato capacità di trasformismo degne di (Inserire nomi di esponenti politici del centro moderato-cattolico italiano).
Per seguire questa filosofia, si potrebbe riavvolgere il festival al contrario: partire dalle radici esplorate da Viterbini, ultimo in ordine cronologico ad esibirsi sul palco del Locomotiv, passando poi ad Astatke, che, partendo dalle influenze della sua terra, l’Etiopia, crea un originale melting pot afrocubano, per arrivare infine ai Tortoise, i primi ad esibirsi, cervellotici, complessi, freddi, e, proprio per questo, contemporanei.
Dal Mali al Mississippi: Adriano Viterbini
Adriano Viterbini, cantante e chitarrista dei BSBE, ma con all’attivo due interessanti album da solista, Goldfoil e Film|O|Sound, si presenta a Bologna accompagnato da un duo di tutto rispetto: Piero Monterisi, uno dei più richiesti session-man italiani, alla batteria e Ramon Caravallo, già visto con Daniele Silvestri e Bandabardò, a dividersi tra percussioni, voce, tromba, piano e basso elettrico.
Il live rispecchia pienamente l’attitudine di Film|O|Sound, che Viterbini ci aveva raccontato a novembre, in occasione dell’uscita, riprendendone gli arrangiamenti e, più in generale, l’apertura ai suoni del mondo. Un approccio che, sarà banale ricordarlo, segue il solco lasciato nella storia della musica da Ry Cooder (forse anche troppo da vicino, a voler trovare una pecca). Del musicista californiano Viterbini riprende in primis la customizzazione della Telecaster, a cui applica i pick-up da lap-steel, anche se, va detto, gli stili chitarristici dei due sono piuttosto diversi tra loro. Ma l’influenza di Cooder su Viterbini emerge ancor più nell’approccio alla musica in generale: sembra quasi ne abbia scelto la discografia a mo’ di cartina, per non perdersi nelle proprie esplorazioni del mondo.
La prima tappa nella storia di Ry Cooder è quella latin dell’esperienza di Buena Vista Social Club, oltre che di quella, non meno interessante, di Mambo Sinuendo, con il chitarrista Manuel Galban. Questa vena, già emersa in Film|O|Sound con il riarrangiamento cuban di Malaika, un classico del repertorio di Harry Belafonte, trova ampio spazio nel concerto. In questo frangente, emergono il gusto di Viterbini nell’l’accompagnamento e, soprattutto, la voce e la tromba di Caravallo, che guidano la rilettura di classici, un po’ abusati, come Chan-Chan, El Manisero, entrambi nella colonna sonora del film di Wenders e, nel finale, Guantanamera.
La seconda anima del live è quella nordafricana, una passione recente che ha portato il chitarrista romano a collaborare quest’anno con Bombino, il chitarrista nigerino già ospitato da Express nel 2014. Qui Viterbini lavora la chitarra in un modo simile a quanto fa con i BSBE: ne colpisce le corde in ogni angolazione e tempo possibile, lavora sui feedback e sulla stratificazione delle diverse parti, insomma la utilizza come terza percussione in ausilio di Monterisi e Caravallo. Un approccio che si discosta parecchio dal terreno battuto da Cooder in Talking Timbuktu e A meeting by the river, orientandosi più sul sound aggressivo e meticciato con il rock dei Tinariwen. E, non a caso, si aggiunge al trio per qualche brano anche Faris Amine, collaboratore fisso della band tuareg, che, chitarra e voce, prende il centro della scena per una lunga jam su Imidiwan Afrik Tendam.
Infine, c’è la passione per la musica americana e per il suo songbook, la stessa che ha portato Ry Cooder a reinterpretare gli Stones in Paradise and Lunch o Elvis in Bop till You Drop. Nel blues, Adriano può concentrarsi sulla chitarra slide, che suona con un approccio così melodico ed un attacco così potente da ricordare il sottovalutato Blake Mills. I suoi assoli cantano e reinterpretano classici come Sleepwalk, del pacchianissimo duo italoamericano Santo&Johhny, o una divertita Butta la chiave di Peter Van Wood, purtroppo ormai noto ai più come astrologo di Quelli che il calcio che come un innovativo chitarrista. Infine, c’è quella Bring it on home di Sam Cooke che è semplicemente la cosa migliore della serata, in cui a soppiantare la mancanza di Alberto Ferrari dei Verdena, che la canta su Film|O|Sound, ci pensa più che bene la chitarra di Adriano. E non penso ci sia complimento che gli possa fare più piacere.
The soul of a man: Mulatu Astatke
Applicando a Mulatu Astatke l’abusata teoria Arbasiniana sull’evoluzione dell’artista – “Giovane promessa, solito stronzo, venerato maestro” – possiamo tranquillamente ascrivere il compositore e vibrafonista etiope all’ultima delle tre categorie, e non solo per banali motivi anagrafici. A 73 anni suonati, infatti, il “Double doctor of Ethiopic jazz”, come viene introdotto all’inizio concerto per via dei riconoscimenti ricevuti dai college di Berklee e Trinity, fa proprio ciò che un venerato maestro dovrebbe fare alla sua età: il master of ceremonies.
Astatke introduce ogni singolo brano e, consapevole di aver assemblato un settetto eccellente, in cui spicca l’affiatata sezione ritmica londinese di Tom Skinner alla batteria e John Edwards al contrabbasso, incredibilmente groovy pur nei vincoli della ripetitività percussiva spesso richiesta dall’afro-jazz, ne rimarca spesso i lunghi assoli, durante i quali si aggira pensoso ma autoritario sul palco, dedicandosi alle percussioni, lamentandosi con il tecnico del suono o sedendosi al piano elettrico per accompagnare con discrezione. E se non si fosse capito chi è che gestisce la baracca, nell’iniziale Dèwèl, guidata da un ipnotico giro di basso, Astatke si lancia in una lunga improvvisazione al vibrafono, piena di riverbero. Segue uno dei brani migliori della serata, quella Yekermo Saw, un mid-tempo composto per la colonna sonora di Broken Flowers, che potrebbe essere il manifesto musicale del compositore etiope. La scala discendente dei fiati è un chiaro tributo alla Song for my father di Horace Silver (a cui hanno già attinto gli Steely Dan a loro tempo), mentre la batteria e il basso battono secchi ma leggeri i quarti come nei dischi Motown, prima di animarsi in un sound pieno di venature cubane per l’assolo di tromba di Byron Wallen, impregnato di influenze africane e abile nell’evitare i triti cliché del genere.
Come a voler spaccare in due il concerto, c’è poi la lunga e complessa Azmari, quasi una suite, tratta dall’ultimo album Sketches of Etiopia. I due set di percussioni e Astatke stesso formano uno stratificato tappeto di poliritmi su cui, all’unisono, viola, piano, contrabbasso e fiati elaborano una melodia arabeggiante. Nel corso dell’assolo di flauto traverso, invece, il brano muta nel ritmo e nella costruzione, assumendo una progressione bluesy a cui si va aggiungere a poco a poco un clavinet degno di Higher Ground che certifica il definitivo spostamento nel continente americano. Ma prima di tornare all’Africa con la chiusura a base di percussioni, c’è ancora il tempo per un aggressivo assolo di viola, strumento europeo per antonomasia.
Nella seconda metà dell’esibizione emerge pienamente l’influenza esercitata su Astatke dalla musica cubana, quella riflessiva di Bebo Valdés, per intenderci, piuttosto che la variante al fulmicotone di Eddie Palmieri e della sua orchestra. Nell’uno-due rilassato di Motherland e The Way to Nice, finalmente Mulatu sembra dimenticare i problemi tecnici e si abbandona ispirato sul suo vibrafono, in un assolo molto melodico, alla Milt Jackson, cantando ad alta voce tutte le note come faceva dal vivo Thelonious Monk. A chiudere il concerto, dopo due ore tirate, un unico bis, Mulatu, che, ovviamente, il “venerato maestro” di cui sopra pensa bene di dedicare a sé stesso.
Ci sarebbe molto da dire ancora sulla storia di Mulatu Astatke: sulla sua credibilità nel raccogliere le più disparate influenze in un crogiolo credibile; sul ruolo che una band londinese come gli Heliocentrics sta avendo nel riscoprire talenti dimenticati e dispersi nel mondo come lo stesso Astatke, Lloyd Miller o Orlando Julius (portato tra l’altro a Bologna dallo stesso Locomotiv); o, piuttosto, su quanto la seconda gioventù musicale di Astatke sia collegata all’archivismo dilagante (nello specifico, l’interessante retrospettiva Ethiopiques). Non è questo il luogo per farlo, ma resta giusto il tempo per ripensare ad un gran concerto, come se ne vedono di rado, e andarsi a rivedere per l’ennesima volta Broken Flowers.
Godfathers and Sons: Tortoise
Il palco dei Tortoise è forse uno dei più affollati visti dai tempi degli Sly and the Family Stone: un basso, due vibrafoni, due chitarre, due set di synth e due di batteria, posizionati uno di fronte all’altro, a cui si alterneranno, con la stessa, inquietante scioltezza, tre dei sei membri della band.
La prima parte del concerto è più atmosferica, dedicata all’ultimo album The Catastrophist. Apre Ox Duke, che beneficia dal vivo di una linea di basso ancora più intraprendente e swing, seguita da Tesseract, in cui la chitarra jazz di Jeff Parker scandisce gli accordi prima di sporcarsi e perdersi in arabeschi distorti. Terza in scaletta è Yonder Blue, uno dei pezzi più riusciti di The Catastrophist, originariamente cantata da Georgia Hubley degli Yo La Tengo e qui riproposta in una versione interessante, in cui al mood Morriconiano di batteria e basso, che rimane nell’arrangiamento dal vivo, si aggiunge una venatura soul, quasi come se i Pink Floyd andassero a registrare con Al Green per la Hi-Records. Fantastico, anche se qualche fan della prima ora avrà storto il naso.
Nella prima parte del concerto, così come in The Catastrophist, a emergere è la capacità di dialogo della band, che fa’ un uso continuo del call and response nell’enunciazione delle melodie tipico dello swing e del jump blues, con gli strumenti, e in particolar modo chitarra e vibrafono, a inseguirsi via via con più intensità fino a sovrapporsi. Nella seconda metà, invece, l’attenzione della band si discosta dall’ultimo album ma, nel riaffrontare il proprio repertorio, i Tortoise sembrano comunque proseguire in una sorta di masterclass musicale. Ecco una componente free, con dei momenti che ricordano lo Zorn di Naked City, quando Doug McCombs che maltratta la sua Jazzmaster con un violento slap, ed ecco quella tropicalista di Gigantes, per intenderci, in cui all’incrociarsi delle due batterie si sovrappone quello dei synth. E poi la cinematica Prepare your Coffin, da Beacons of Ancestorship, che non avrebbe affatto sfigurato in una soundtrack degli anni ‘70 e che non so perché mi ricorda una canzone che i Baustelle non sono ancora riusciti a scrivere.
Nel finale, prima dei due bis che chiuderanno un gran concerto di due ore, arriva, acclamata dal pubblico, Seneca, introdotta da un doppio assolo di batteria, degno delle drum battles di Gene Krupa e Buddy Rich, su cui svetta il suono twangy di McCombs. Il funk angolare, quasi matematico, che segue, con la sua riconoscibilissima parte di chitarra suonata da Jeff Parker, si risolve in un handclapping in tempi dispari. Ed è proprio nella loro disparità che si conferma, ancora una volta, la grandezza dei Tortoise, capaci di varcare indenni tutti gli stereotipi musicali e persino una potenzialmente letale collaborazione con Bonnie Prince Billy. Nella musica del gruppo di Chicago, come nel jazz da camera di Carla Bley, la freddezza della conoscenza e della tecnica, condita con ironia e gusto, prevale sull’istinto dell’improvvisazione. Anche e forse più nella dimensione live, i Tortoise proseguono nel loro paradosso: negare le ipotesi più profonde e basilari di cent’anni di musica afroamericana, esaltandone al contempo i frutti migliori.