Musiche dal Futuro | L’IDM in Exmachina di Valerio Mattioli

Il 9 luglio del 1992 la Warp Records di Sheffield dà alle stampe la compilation Artificial Intelligence. In copertina un automa è seduto nel suo salotto con la testa reclinata sulla poltrona. Fatto di erba, ascolta vecchi vinili dal suo giradischi: a terra ci sono, tra gli altri, Autobahn dei Kraftwerk e The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd. La compilation è uno strano oggetto; è ancora techno ma la sua musica è notevolmente rallentata, è ancora dance ma non più da pista: è una techno da salotto.

Chi ha comprato e ha ascoltato quel disco non poteva di certo saperlo ma era testimone della nascita di un movimento, quello dell’IDM – l’Intelligence Dance Music, finalmente raccontato in Exmachina. Storia musicale della nostra estinzione 1992 – ∞ (Minimum Fax), il saggio scritto da Valerio Mattioli, romano, classe 1978, già autore del poderoso Superonda. Storia segreta della musica italiana (Baldini + Castoldi, 2016) e, sempre per Minimum Fax, di Remoria. La città invertita (2019).

Dire saggio è fuorviante, ancora di più lo è parlare di un saggio sull’IDM; e questo perché Mattioli non si limita al tratteggio di un’epoca e della sua colonna sonora, ma prova – riuscendoci oltre ogni aspettativa – a disegnare un percorso che non è mai solo strettamente culturale (e nella fattispecie musicale) ma che vuole essere la lettura in filigrana – a partire da quegli anni Novanta così decisivi per i tempi che ancora oggi ci troviamo a vivere – di una profonda mutazione sociale innanzitutto, che coinvolse la vita del singolo, il tessuto urbano, la politica, l’intrattenimento e, certamente, quella musica specifica – scelta tra le molte altre che pure segnarono un’epoca ma che, ci convince Mattioli, fu la sola capace di assumere su di sé i tratti peculiari di un tempo sospeso tra l’attesa di un cambiamento perennemente annunciato e una secca perpetua che spingeva a guardare con occhio nostalgico al passato.

Negli stessi anni la techno con tutti i sottogeneri di quegli anni – hardcore e jungle su tutti – da una parte continuava la sua funzione rivoluzionaria – soprattutto da un punto di vista sociale e politico – dall’altro subiva sempre più una sorta di scollamento rispetto alla coincidenza tra la realtà circostante e il valore musicale che esprimeva. In sostanza, iniziava a essere una musica non più espressione di un nuovo che avanzava, mostrando, invece, i primi segni di stanchezza. Quelli che negli anni l’avrebbero portata a diventare musica di distrazione per borghesi che giocano a fare i tossici tra le Baleari e Goa.

Poche settimane prima dell’uscita di Artificial Intelligence, nel maggio di quell’anno, la Polizia dell’Avon e del Somerset, nel tentativo di porre fine all’annuale rave che si teneva da diversi anni nell’area di Bristol spinse i partecipanti nei dintorni di Castlemorton. Qui, un improvvisato Castlemorton Common Festival andò avanti per un’intera settimana, dal 22 al 29, divenendo, di fatto, l’evento più grande di questo tipo dopo lo Stonehenge Free Festival di metà anni ottanta. I disordini che ne seguirono e, ancora di più il clamore suscitato dall’interesse dei media condurrà all’emanazione due anni più tardi del Criminal Justice and Public Order Act, il provvedimento con cui il governo inglese cercò di spezzare la cultura dei rave – ricordato, tra l’altro nel recente e bellissimo documentario “Laurent Garnier: Off the Record” che racconta la storia del dj francese.

Come sottolinea lo stesso Mattioli, dunque, se pur già in parabola discendente “nemmeno il successo tanto nelle classifiche che sulla pista da ballo riusciva a celare il fatto che a dirigere i passi della [techno] era un processo violento, per soddisfare il quale il pubblico era obbligato a un’abnegazione essenzialmente suicida”. La techno manteneva inalterata a un occhio esterno la sua carica dirompente di sovversione. In questo senso e per confronto è innegabile che l’IDM finisse, così, con l’essere “una techno che anziché evocare la tirannica distanza di qualche pianeta alieno lasciava immaginare «piccole nuvole successive». Musica ritmica elettronica capace di funzionare come sottofondo curativo alla penosa conta dei neuroni andati persi sotto l’azione concertata dalle droghe da laboratorio e dei parametri inflessibili della Futuritmacchina. Eccola la «musica dance per stare comodamente seduti» che nei primi anni Novanta sembrò farsi un punto d’onore nel rallentare, invertire e reindirizzare gli spietati propositi antiumani dell’hardcore”.

Il particolare che tale musica sia stata non tanto il braccio armato della reazione ma il contingente segreto di un’operazione su larga scala architettata per stringere l’umano nella morsa congiunta della prona abdicazione al linguaggio-macchina e dell’autoannullamento puro e semplice non ne pregiudica il fascino. Casomai ne incrementa l’incantesimo inconfessabilmente suicidario.

A un occhio distratto, che di certo non coincide con quello di Mattioli, l’IDM ebbe certamente “la funzione di assorbire le spinte eversive dell’hardcore per assecondare gli innocui, conservatori gusti di un pubblico bianco e borghese”. Eppure lungo le pagine di Exmachina, s’insinua sempre più un sospetto micidiale che “camuffando l’abbattimento dello Human Security System dichiarato dalla techno, diluendolo sotto forma di placido sottofondo per la beatitudine domestica, e concentrando le proprie operazioni sull’obiettivo più sensibile, abbia invece finito per amplificarne a dismisura gli effetti”. Diluire una sostanza per facilitarne l’assorbimento.

Valerio Mattioli

L’avvento dei personal computer stava minando un modus vivendi che durava da decenni; gli stregoni della Silicon Valley, i portatori di luce della nuova tecnognosi imbevuti di New Age promettevano l’utopia tecnologica come panacea di ogni male. Microsft sceglieva come sfondo “bliss” immagine reale, pacifica e asettica di una collina verde, Brian Eno in appena tre secondi creava il suono di Windows. Poche note a condensare le speranze di un’intera stagione. Del resto, la speranza abbondava: il crollo del Muro di Berlino, prima, la caduta dell’Unione Sovietica che concludeva la Guerra Fredda, la teorizzazione de “La Fine della Storia” sembravano concorrere nella direzione di un mondo diverso. Non era vero, lo sappiamo benissimo oggi, lo sapevamo, in fondo già ai tempi.

Eppure in quel clima l’IDM sembrava poter diventare il contraltare perfetto di un mondo in evoluzione, la sua espressione più sincera. Lo divenne, ma svelando la vera natura di quelle attese.

La paranoia è d’altronde – lo avrete capito – il puro e autentico spirito guida delle pagine che voi state leggendo, e che io ho cominciato a scrivere nel momento in cui per mesi mi sono ritrovato come tutti costretto in casa.

Non sorprende che Exmachina sia stato iniziato durante il lockdown della primavera del 2020. E per almeno due ragioni: la prima è che questa pandemia e quelle decisioni così estreme hanno segnato – ce ne accorgeremo – l’inizio di un nuovo modo di pensare al rapporto tra noi, lo spazio e gli altri; e, in secondo luogo, perché ciò che è andato configurandosi giorno dopo giorno – chiusi nei confini delle mura dei nostri appartamenti con un nemico invisibile ad assediarci dall’esterno – vale a dire che qualsiasi contatto umano verso l’esterno fosse consentito solo attraverso l’uso di devices e di connessioni elettroniche e tecnologiche, metteva in moto in maniera quasi automatica le congiunzioni che sul finire degli anni ottanta e l’inizio dell’ultima decade del Novecento avevano aperto la strada proprio all’IDM.

Tre copertine di The Wire, il magazine che più diede voce ai protagonisti dell’IDM

La traiettoria che Mattioli traccia è un modo di disvelare un meccanismo utilizzando le lenti di un cannocchiale rovescio che inquadra l’IDM attraverso “solo” tre nomi – Aphex Twin, Autechre, Boards of Canada – che però di quel movimento rappresentarono non solo gli elementi di spicco ma una sorta di santissima trinità nelle cui idee musicali si celava una serie di segni che Mattioli – come una sorta di archeologo urbano – sembra essere in grado di rivelare meglio di chiunque altro, offrendo al lettore una visione originale e avvincente di uno snodo fondamentale del nostro tempo.

Dicevamo quanto sia riduttivo definirlo saggio e non solo perché Exmachina è minato dalla continua presenza di Mattioli e da autentiche pagine di autofiction, ma soprattutto perché è il valore della scrittura a smarcarlo dalla mera saggistica. La paranoia che domina il libro è specchio vividissimo di quella che – nonostante i tentativi di voltarsi dall’altra parte – il lockdown non ha solo generato ma ha svelato nel momento in cui ha squarciato il velo di quei piccoli trucchi con cui tutti noi proviamo a crogiolarci in quella nostalgia che più che essere un approccio malinconico al passato appare come la resa incondizionata all’impossibilità di un Futuro.

Ma cosa succede quando questo riflesso rimanda a un altro riflesso? Cosa succede quando l’elettricità non porta testimonianza che di altra elettricità, quando le qualità acusmatiche del suono disincarnato dalla fonte rimandano a un’origine che è priva di fonte anch’essa?

In principio fu Aphex Twin cui si deve la funzione “eminentemente iniziatica”: in lui la presenza di melodie da una parte e una personalità ancora legata al fascino della rockstar furono l’esca che consentì a molti di avvicinarsi al sacro gelo del “Grande Nulla cibernetico”. In Richard D. James permane – pur tra mille varianti – “il catalogo infinito della mitopoiesi pop, aggiornato all’era dei nerd, degli appassionati di videogame e degli smanettoni da tastiera”. Una figura sfaccettata – “enfant prodige, scienziato pazzo, genio solitario perso in un mondo di pura immaginazione, trickster“ dalla “duplice natura, animale e divina al tempo stesso” che con le sue sortite, spesso infantili e picaresche, “chiude gli anni Novanta della Fine della Storia e dello stucchevole ottimismo hi-tech rivelandone tutta la puerile, grottesca inconsistenza”.

Aphex Twin

Booth e Brown sono il monolite che irradia luce dall’altra parte del ponte. Inscalfibile, severo e tirannico, dinanzi alla sua lingua muta non ti resta che chinare il capo e soccombere all’indecifrabile potenza venuta a reclamare, dilaniare e rimpiazzare i tuoi neuroni, le tue emozioni, le tue carni.

Mentre la Macchina macina il suo trionfo, gli anni Novanta insieme alle strutture tecnologiche, alterano il rapporto tra la mole delle notizie e la loro fruizione possibile scatenando un effetto feedback. Il bisogno di quantità sempre maggiori di informazioni non conduce alla chiarezza, ma a un’ulteriore forma di complessità. La Macchina procede dritta, siamo noi a ingolfarci.

Ed è proprio dentro questo meccanismo perverso che – fin dalla loro apparizione nei sottoboschi techno di inizi anni Novanta – gli Autechre rappresentano “l’oltre-lo-specchio, la prova inconfutabile della «intelligenza che nulla ha a che fare con la specie umana»”. Il duo scozzese lascia interamente alla propria musica la capacità di “dispiegare tutta la potenza di calcolo di cui l’Automa è capace, lasciare che dalla Macchina emerga una forma di vita propria, fare in modo che questa forma di vita tenga fede al processo per cui è stata progettata, seguendo null’altro che i propri inafferrabili impulsi”.

Gli Autechre

Se Aphex Twin rappresentava “il traghettatore, il messaggero che introduce all’esanime soffio dell’Algoritmo; la creatura di Booth e Brown, a sua volta, è l’Algoritmo che di stabilire un contatto non ha più necessità alcuna, tanto la sua esistenza si rivela indifferente all’umano sguardo”. Alla guida del software Max/MSP gli Autechre si trasformano in “tecnocrati/stregoni dallo sguardo imperscrutabile, tenacemente concentrati sulla Grande Opera. Maniacali nei dettagli, ossessivi dissezionatori di un suono che viene scomposto e ricomposto da ogni angolatura possibile fino a partorire stranianti architetture cubiste”.

La loro non è una “«techno intelligente». Questa semmai è una techno che annuncia l’emersione di un’intelligenza. Solo che, ecco: non è dell’intelligenza dell’ascoltatore che stiamo parlando – perché non è l’intelligenza umana quella da cui il cervello sintetico deriva il suo comportamento

Intorno agli Autechre si forma il nucleo più affascinante del libro di Mattioli: se fino a quel momento tutto il “sound of future” – per citare Moroder – era nato con l’intento di far ballare, ecco che l’IDM più che legarsi al significato del suo acronimo – è intelligente, certo, ma non diversamente da altre musiche, è dance ma difficilmente ballabile – trova la sua ragion d’essere più pura nel collocarsi dentro un discorso molto più ampio e, a quel discorso, finalmente dare forse la sua forma maggiormente compiuta: cybercultura, Macchina Speculatrix, comunicazione non verbali – bellissimo il riferimento a Cristalli Sognanti di Theodore Sturgeon del 1950, – sessualità meccanica (Crash di James Graham Ballard), il cinema body horror di David Cronenberg e Julia Ducournau fino a risalire alla civiltà delle macchine teorizzata da Filippo Tommaso Marinetti. Il cerchio si chiude: quella degli Autechre non appare più come una musica programmata dallo stesso duo ma una musica che ormai ha guadagnato la sua autonomia.

Interfaccia del software Max/MSP, dietro la musica degli Autechre

Come un codice alieno di cui ancora non è stata trovata la Stele di Rosetta, per tre decenni gli Autechre hanno obbligato il proprio pubblico a un’estenuante, frustrante, opera di decrittazione nella vana speranza di capire l’incomprensibile. Persino il loro nome è impronunciabile – o almeno, viene tipicamente storpiato nei più diversi modi a seconda della provenienza e delle interpretazioni dei fan (la pronuncia ufficiale, pare, è otèker)

La loro musica – ci dice Mattioli – ha consentito di oltrepassare il concetto di intelligenza artificiale come proiezione antropomorfa per giungere all’intuizione di un cervello sintetico la cui funzione è agire sotto l’impulso dei pochi input che gli vengono dati. La loro discografia è la testimonianza di questa escalation, la previsione possibile di una musica che si genera da sola e potenzialmente si fa infinita. Ecco allora che Booth e Brown “mettono in musica il funerale della grande orgia rave, della danze collettive a suon di techno intonando una litania di titoli la cui pronuncia è impossibile, la [cui] grammatica [è] corrosa dall’aggressione di un virus”.

Se è vero che «ai concerti degli Autechre nessuno balla» – come osservò Simon Reynolds, tra i padri nobili di questo libro di cui pure cura l’introduzione – è perché – ci dice Mattioli – “la loro electro non lineare è concepita non per smuovere membra e braccia, ma per accompagnare le danze di entità sempre e comunque non umane – grattacieli in cemento, artropodi insettili, servomeccanismi fotocellulari. Non sono gli Autechre a essere poco ballabili; siamo noi che non disponiamo delle articolazioni necessarie.

I Boards of Canada

Mentre gli Autechre proseguono per la loro strada, la cultura rave che pure a suo modo aveva saputo mescolare tecnofilia e sudore, rappresentando un’idea di futuro, naufraga lungo una battigia dominata da stili passatisti che l’accompagnano fino ai raduni oceanici di oggi. Agli inizi degli anni Duemila i Radiohead – che pure col precedente Ok Computer sembravano porsi come alfieri di un nuovo possibile alt-rock – abbracciano completamente i nuovi suoni, realizzando quasi come dentro a un pentimento l’”ultra autechrianoKid A, sancendo “il trionfo dell’immaginario Warp su un armamentario sangue & sudore percepito come ammuffito e sorpassato”. Eppure Kid A, più che rappresentare la possibile apertura di un universo – quello rock, già allora giurassico e che avrebbe continuato su quella strada – verso suoni capaci di interpretare il proprio tempo, ne rappresentò il Requiem – seppure un Requiem splendido, sia chiaro. Di lì a poco il percorso della musica tutta avrebbe preso un verso incredibilmente opposto.

Ovunque si puntassero gli occhi, ovunque si orientassero le orecchie, le parole d’ordine erano revival, nostalgia e recupero. Il decennio che si era inaugurato con l’abbattimento delle Torri Gemelle e col tramonto dei discorsi sulla «fine della Storia» finì per essere dominato da quella che Mark Fisher avrebbe chiamato «la lenta scomparsa del futuro»; la sensazione che l’avvenire era alle spalle e che gli spettri delle promesse passate erano destinati a infestare perennemente un eterno presente senza domani si tradusse in quella che ancora Fisher, via Derrida, battezzò hauntology

La nuova-vecchia onda sarà la stessa che porterà proprio Simon Reynolds a parlare di «dipendenza della cultura pop dal suo stesso passato» come dirà nel suo saggio più famoso, quel Retromania che riassumeva il senso di un’epoca intera.

È la macchina a ricordarci. L’hauntologia non era semplicemente la memoria nostalgica di un passato ancora carico di promesse mai avverate. Piuttosto, i suoi spettri erano i lemuri di una catastrofe già avvenuta. Lo sguardo retroriferito della lenta cancellazione del futuro veniva dal futuro stesso. La Memoria è una Profezia.

Sembra che per l’IDM sia finita, che non ci sia più una possibilità di spazio alcuno. E invece, la Macchina sa trovare l’ultima sua incredibile dimensione per continuare a esistere e lo fa attraverso il terzo nome della Santa Trinità, quello meno prevedibile.

Cos’altro resta da dire, cos’altro aggiungere una volta che la Macchina, unica abitante rimasta di un cosmo ormai spoglio di qualsiasi residuo umano, è stata lasciata da sola a elaborare e ricostruire il ricordo del nostro paesaggio?

Da qualsiasi angolazione li si guardasse” – scrive Mattioli – “i Boards of Canada tradivano un che di fatato, di magico, meglio ancora di esoterico”. Fin dall’esordio con Music has the right to children (1998) che ne avrebbe immediatamente determinato ambizioni e immaginario, la musica dei Boards of Canada è “un’arte della memoria, eppure questa memoria appare sempre imprecisa, fallace, e la stessa natura del ricordo è perennemente suscettibile di contraddizione”.

Quella dei Boards of Canada è “memoradelia”, psichedelia della memoria ma “essendo elettronica, è innanzitutto composta dalla stessa sostanza da cui scaturisce l’impulso in codice binario – è immateriale, informazione che arriva da una distanza”. Tutto il loro armamentario blurry – sfocato – l’uso dell’analogico, di vecchi sintetizzatori, le stesse memorie come i ricordi ricostruiti in un laboratorio asettico sono “questione tecnica”, ricostruzione artificiale.

Il loro capolavoro – una delle tante affascinanti intuizioni di Mattioli – è aver saputo costruire non una memoria del passato bensì quello di aver raccolto una memoria dal futuro. È la Macchina che ci parla, confondendoci con la nostalgia di un tempo che non abbiamo nemmeno avuto modo di vivere. L’IDM – sembra dirci Valerio Mattioli con questa sua creatura in total white tra le mani – ci parlava dal futuro, senza che ce ne fossimo mai accorti.

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