“Evohé” è il giubilo delle baccanti che ha ispirato il titolo di un’opera poetica di Cristina Peri Rossi. “Evohé” rappresenta il richiamo e l’esclamazione di giubilo, in questo caso, per la poesia. Una rubrica creata per esplorare poeti di diverse latitudini e generazioni, l’obiettivo è quello di fungere da punto d’incontro per le diverse poetiche che illuminano la marginalità, consapevoli della tradizione che precede e influisce sulla sua costruzione e sul suo rinnovamento.
a cura di Tania Pleitez Vela e Rocío Bolaños
Giansalvo Pio Fortunato è un giovane poeta che ha all’attivo due libri di poesie “Ulivi nascenti” (Albatros, Il Filo, 2022) e “Civiltà di Sodoma” (RP Libri, 2023). La sua poesia ricca di riferimenti mitologici e biblici senza né pretesa né volontà di un ritorno al passato o di misticismo è profondamente calata nella realtà vista, e in qualche modo reinterpretata, alla luce e alle ombre dell’antichità. Antichità non vissuta con il sentimento di un’ingenua nostalgia verso una fantomatica età dell’oro, ma direi come sostrato linguistico necessario al giovane impeto ideologico, come egli stesso definisce l’input della sua scrittura poetica, caratterizzata effettivamente da una forza espressiva che l’uso di un linguaggio colto e a volte arcaico, ancora legato al mondo classico, con parole desuete e l’uso dell’ elisione, sottolineano.
In Giansalvo Pio Fortunato la scrittura poetica è tesa all’invettiva e all’indignazione, allo stanare tutto ciò che di deprecabile è alla base della società odierna. Tutto tace/nei vicoli agonizzanti/e nell’urlo duro d’un uomo,/al tramonto della sua luce, così scrive nella poesia “Silenzio di vita” e da questo tacere che si fa urlo nasce la necessità interiore che spinge il poeta a scrivere in un dialogo costante con il suo tempo e con le figure poetiche più lo hanno ispirato tra cui, uno per tutti, Eugenio Montale. Mi piace leggere in questo uso inusuale del linguaggio per un giovane nato agli inizi degli anni 2000, una doppia provocazione, quella già insista nel fare poetico, ossia della poesia come rottura esistenziale e linguistica con il consueto andare delle cose e quello di realizzarlo attraverso parole non più in uso non solo nel quotidiano parlare, ma nella poesia del Novecento. Forse segno anche di un prendere le distanze dal proprio tempo e di un senso di spaesamento umano e poetico, psicologico e spirituale che accompagna spesso l’essere umano nelle varie età della sua esistenza e che tanto più è avvertito durante la giovinezza quando si sta cercando la propria strada e, nel caso del poeta, la propria voce per dire con maggiore precisione ciò che dentro preme.
Lucianna Argentino
Babele superata
Babele
ancora sovrasta
le torri dei miti
ed al suono della lira
ridesta gli uomini
in un’irragionevole veglia:
la tempesta non è più,
l’ingordigia dell’oggi
non è mai;
l’alienazione al divino
è sacrilegio svenduto,
il timore del nulla
è presago di sventura,
l’amplesso
un canalicolo d’ilarità
o lo svezzamento sociale.
Babele stessa
tramortisce forse
ed io siedo
sulle sue macerie
con una penna,
un residuo di carne
su cui scrivere,
ed un sigaro
a bruciare
l’incenso del viatico.
(da “Civiltà di Sodoma”, RP Libri)
Mogano IV
Ti so come l’edera
sui cipressi del silenzio
ed ora è la contaminazione
aberrante: lo sguardo
trita il fiato, lascia la vita
smezzata nelle furie della parola
al luogo della circostanza.
Un’anonima sonnolenza ti attira
fino al dialogo che scrivi
doloroso, mai vuoto
se non della cellula narrante
la lettura animata dal tramonto.
Circostanze segnano il sangue,
chiamato a grondare dai passi
sul treno isolato del fuoco tra anime.
Non passa il pavimento – non avrà
la dinamica liberatoria – e la catarsi
è la tua mano nella pioggia.
Oggi scopriamo la gemellanza
e le distese che ci traducono
col vissuto diverso, ma col labbro
univoco in nuance protratta alla poesia.
Rendo il diario: è la vita dei miracoli.
Forse cadremo nella stiva, Mogano,
creando la furia dell’ossigeno adattato.
È il con vivere
l’adempimento dei millimetri
in due cuori.
(inedito)
Momenti di un naufragio
A stento si invoca il silenzio
che riduce i seni al legno,
alla pietra nel canto della Passione:
segno non rinunciato
sul cammino per la salvezza.
Ed è l’ombra
a richiamare gli occhi di ambra,
la crocifissione relitta
sul fondo di chi sa attendere
la marcia danzante al fulcro.
Il peso delle ossa
si ricava da un’anatomia semplice
che scruta l’irrimediato nella parola
mozzata, infissa nei nomi
dei consegnati alla rassegnazione:
uomini col vizio della decenza.
Questa notte non chiama fine:
è appoggiata nel legno
indotto ed appena cresciuto –
a questo fiero ramo guarda,
o Padre – l’involucro del muscolo
in debito con la mano
esaltante pietà.
So significare le sembianze del Golgota,
cellula ancorata alla terra
che spacca i fianchi e rotola
guardando l’abisso
col volto di una vergine.
Momenti nel naufragio.
(inedito)