Evohé | Balam Rodrigo: “E anche Dio era in esilio, in una migrazione senza fine”

“Evohé” rappresenta il richiamo e l’esclamazione di giubilo, in questo caso, per la poesia. Una rubrica creata per esplorare poeti di diverse latitudini e generazioni, l’obiettivo è quello di fungere da punto d’incontro per le diverse poetiche che illuminano la marginalità, consapevoli della tradizione che precede e influisce sulla sua costruzione e sul suo rinnovamento.
a cura di Tania Pleitez Vela e Rocío Bolaños

Libro centroamericano de los muertos [Libro centroamericano dei morti] (2018) di Balam Rodrigo (Chiapas, Messico, 1974) contiene il profumo dell’antico El Libro egipcio de los muertos [Libro egiziano dei Morti], che designa incantesimi e preghiere per assistere le anime dei defunti nel loro transito attraverso gli inferi verso l’aldilà. Espira anche il respiro dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (1915), che allude a 250 epitaffi ambientati in un cimitero immaginario di una cittadina dell’Illinois, le cui storie di vita sono evocate sotto forma di monologo drammatico.

Questi legami trans-testuali sono le tracce che Balam Rodrigo utilizza per ricreare un’allegoria contemporanea in cui convergono caratteristiche etiche, politiche, estetiche e storiche. L’asse del suo libro è la migrazione centroamericana e il ritratto di un Messico che, nonostante sia storicamente un paese di emigranti, sfrutta o fa affari con i centroamericani nel loro percorso verso gli Stati Uniti. Così, attraverso i monologhi dei morti che raccontano i loro tragici destini, viene descritto un enorme cimitero chiamato Messico.

Ovviamente, il libro si distingue per la sua polifonia, le diverse voci dei migranti morti. Compare anche la voce autobiografica, che collega la sua storia e quella della sua famiglia con quella di numerosi centroamericani che si rifugiarono nella sua casa d’infanzia a Villa de Comaltitlán, dove i suoi genitori diedero rifugio ai migranti che passavano dal Chiapas per diversi anni. Parte dell’opera è un palinsesto, in quanto sei frammenti della cronaca Brevísima relación de la destrucción de las Indias (1552) di Fray Bartolomé de Las Casas sono intervenuti, aggiornati e riappropriati; emerge così un’analogia tra la violenza perpetrata dai colonizzatori spagnoli contro le popolazioni indigene nel XVI secolo e la violenza esercitata dai cartelli della droga e da altri attori contro i migranti centroamericani di oggi. Viene così sottolineato il continuum della violenza storica. Ci sono altri riferimenti, ad esempio alla Bibbia (l’Esodo e l’Apocalisse) o alla tradizione greco-latina (Ade e Caronte quando si parla dei “barcaioli della morte”). L’autore attinge anche a mitologie precolombiane e cristiane: gli tzompantli azteca, la Xibalba della cultura maya, il Discorso della Montagna trasformato nel Discorso del migrante. Infine, in undici occasioni, vengono incluse le coordinate geografiche di questo grande cimitero, sotto forma di lapidi, tombe o nicchie.

Il libro è diviso in cinque sezioni, ciascuna dedicata a un paese: Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua e Messico. Allo stesso tempo, queste parti sono separate dalla sezione intitolata “Álbum familiar centroamericano” (Album familiare centroamericano), in cui spicca la parte intima e autobiografica, accompagnata da fotografie. In questo modo, Balam Rodrigo rompe la linearità del discorso ufficiale attraverso procedure versatili che navigano nella trans-testualità; attraversano i generi letterari -poesía, cronaca, testimonianza, autobiografía-; e mettono a dura prova il linguaggio. Il poeta osserva da vicino il volto umano della migrazione e ci invita ad accompagnarlo. La sua proposta è lontana dal paternalismo, dal giallismo o dallo spettacolarismo con cui i migranti vengono rappresentati dai mass media, così come dalla discriminazione e dal razzismo radicati nel tessuto sociale.

Libro centroamericano de los muertos è stato vincitore del Premio Bellas Artes de Poesía Aguascalientes nel 2018. Balam Rodrigo è anche l’autore di Marabunta (2018) e El tañedor de cadáveres (2021).


14°40’35.5”N 92°08’50.4”W – (SUCHIATE, CHIAPAS)

 

Este es el origen de la reciente historia de un lugar llamado México.

 

Aquí migraremos, estableceremos la muerte antigua

y la muerte nueva, el origen del horror,

el origen del holocausto, el origen de todo lo

acontecido a los pueblos de Centroamérica,

naciones de la gente que migra.

 

Vine a este lugar porque me dijeron que acá murió mi padre

en su camino hacia Estados Unidos,

sin llegar a ver los dólares ni los granos de arena en el desierto.

 

Bajé de los Cuchumatanes, desde los bosques

de azules hojas de la nación Quiché,

desde la casa en donde habitan la niebla y los quetzales

hasta llegar, cerca de Ayutla, a la orilla del río Suchiate.

 

Abandoné el olor a cuerpos quemados de mi aldea,

la peste militar con sus ladridos de “tierra arrasada”

mordiendo hueso y calcañar con metrallas y napalm,

su huracán de violaciones y navajas

que aniquilaba a los hombres de maíz con perros amaestrados

por un gobierno que alumbra el camino de sus genocidas

con antorchas de sangre y leyes de mierda.

 

Hui del penetrante olor a odio y podredumbre;

caminé descalzo hasta el otro lado del inframundo

para curarme los huesos y el hambre.

 

Nunca llegué.

 

Dos machetazos me dieron en el cuerpo

para quitarme la plata y las mazorcas del morral:

el primero derramó mis últimas palabras en quiché;

el segundo me dejó completamente seco,

porque a mi corazón lo habían quemado los kaibiles

junto a los cuerpos de mi familia.

 

Dicen algunos que en la ribera de este río

se aparece un fantasma, pero yo sé que soy,

que he sido y seré, el unigénito de los muertos,

guardián de mi propia sombra, negro relámpago de mi pueblo,

bulto ahogado en esta poza en donde inicia Xibalbá.

 

Dos fichas de cerveza Gallo pusieron en mis ojos:

todos los días veo cruzar por estas aguas a los barqueros de la muerte,

a los comerciantes del dolor que llevan en sus canoas de tablas

y cámaras de llanta las almas de los migrantes

enfiladas puntualmente hacia el tzompantli llamado México.

 

Dicen polleros y coyotes que ven mi fantasma en la ribera,

por eso se santiguan y rezan al cruzar las aguas rotas

de este espejo seco en el que escriben su nombre

con el filo estéril de las hachas votivas.

 

Todos los días veo pasar a las hileras de muertos,

a los que migran sin llegar a Estados Unidos:

parvadas de cuerpos en pena, tristes figuras humanas,

barro entre los insomnes dedos de Dios.

 

Yo, primogénito de los migrantes muertos,

los recibo con un racimo de filosos machetes

en lugar de brazos, iluminado por la cara oculta

de esta luna leprosa:

bienvenidos al cementerio más grande de Centroamérica,

fosa común donde se pudre el cadáver del mundo.

 

Bienvenidos al abierto culo del infierno.

 

14°40’35.5”N 92°08’50.4”W – (SUCHIATE, CHIAPAS)

 

Questa è l’origine della recente storia di un luogo chiamato Messico.

Qui migreremo, stabiliremo la vecchia morte
e la nuova morte, l’origine dell’orrore,
l’origine dell’olocausto, l’origine di tutto
ciò che ha colpito i popoli dell’America Centrale,
nazioni dei popoli che migrano.

Sono venuto in questo luogo perché hanno detto che qui è morto mio padre
nel suo viaggio verso gli Stati Uniti,
senza aver mai visto i dollari o i granelli di sabbia nel deserto.

Sono venuto dai Cuchumatanes, dalle foreste
di foglie blu della nazione Quiché,
dalla casa dove vivono la nebbia e i quetzal
fino ad arrivare, vicino ad Ayutla, sulle rive del fiume Suchiate.

Ho lasciato l’odore dei corpi bruciati del mio villaggio,
la pestilenza militare con il suo abbaiare “terra bruciata”
mordendo ossa e talloni con schegge e napalm,
il loro uragano di stupri e rasoi
che annientava gli uomini del mais con cani addestrati
da un governo che illumina il cammino dei suoi genocidari
con torce di sangue e leggi di merda.

Sono fuggito dall’odore pungente dell’odio e del marcio;
Ho camminato a piedi nudi verso l’altro lato del mondo sotterraneo
per guarire le mie ossa e la fame.

Non ce l’ho mai fatta.

Due colpi di machete sul mio corpo
per prendere l’argento e le pannocchie dalla mia sacca:
il primo mi ha fatto versare le mie ultime parole in quiché;
il secondo mi ha lasciato completamente secco,
perché il mio cuore era stato bruciato dai kaibiles
insieme ai corpi della mia famiglia.

Alcune persone dicono che sulle rive di questo fiume
un fantasma appare, ma io so di essere,
che sono stato e sarò, l’unigenito dei morti,
guardiano della mia stessa ombra, nero fulmine del mio popolo,
grumo annegato in questa pozza dove inizia Xibalbá.

Due gettoni di birra Gallo mi sono stati messi negli occhi:
ogni giorno vedo i barcaioli della morte che attraversano queste acque,
i mercanti di dolore che trasportano nelle loro canoe di legno
e camere d’aria le anime dei migranti
diretti puntualmente verso lo tzompantli chiamato Messico.

Dicono i polleros e i coyotes che vedono il mio fantasma sulla riva,
per questo che si fanno il segno della croce e pregano quando attraversano l’acqua rotta
di questo specchio asciutto su cui scrivono il loro nome
con il bordo sterile delle asce votive.

Ogni giorno vedo passare le file dei morti,
quelli che emigrano senza raggiungere gli Stati Uniti:
stormi di corpi sofferenti, tristi figure umane,
fango tra le dita insonni di Dio.

Io, primogenito dei migranti morti,
li accolgo con un grappolo di machete affilati
al posto delle braccia, illuminati dal lato nascosto
di questa luna lebbrosa:
benvenuti nel più grande cimitero dell’America Centrale,
fossa comune dove marcisce il cadavere del mondo.

Benvenuti nel culo aperto dell’inferno.


16°07’12.1″N 93°48’11.7″W — (Tonalá, Chiapas)

 

 

Tengo 11 años, ahora y para siempre.

 

Nací en el Barrio FendeSal de Soyapango,

cerca de San Salvador, pero a mí nadie,

nunca, me salvó.

 

Mi padre fue asesinado por pandilleros

de la Mara Salvatrucha,

le quitaron una soda y una cora; no tenía más,

ganaba tres dólares al día en el vertedero.

 

Yo le ayudaba jalando el carro

y a veces encontrábamos comida

en las bolsas de desechos que llegaban de Metrocentro

y regresábamos contentos a la casa.

 

Huí de Soyapango con Pablo, de quince años,

mi amigo de la calle.

 

Quería ser futbolista como yo y jugar

en la Selecta, iríamos a la MLS a probar suerte,

por eso intentamos llegar a Estados Unidos,

en donde hay más dólares que pandillas.

 

En un local de tortas mexicanas,

en Coatepeque, Guatemala, miré en la tele

un bárbaro documental sobre el Mágico González:

jugando para el mejor Cádiz de la historia

le metió dos goles al Barcelona

el año en que nació mi padre: 1984;

lloré de la emoción.

 

Dos días hasta llegar a la frontera con México;

atravesamos el río y subimos al tren La Bestia

adelante de Tecún, en Ciudad Hidalgo.

 

Antes de Arriaga me quedé dormido

y todavía sigo cayendo.

 

Llevaré para siempre, como el Mágico,

un 11 tatuado en la espalda;

quizá por el número de bolsas en que guardaron,

todo partido, mi cuerpo;

tal vez porque traía puesta la camisa de la Selecta

con la misma cifra o porque la muerte lleva

el 11 infinito de las vías del tren grabado en el vientre.

 

Antes de caer, Pablo me contó este sueño:

 

Veía yo a Roque Dalton levantarse de entre los vivos

y venir de nuevo al mundo de los muertos.

A su diestra, el Mágico González driblaba a la muerte

y le hacía la “culebrita macheteada”

pateando cabezas decapitadas de pandilleros cuscatlecos,

haciéndole tremendo caño entre las piernas.

El estadio Flor Blanca estaba lleno, había un velorio inmenso

donde la muchedumbre velaba a los migrantes muertos.

 

Sé que Dios juega futbol allá en el cielo.

Pero aún no quiero estar en su equipo.

 

Me quedaré esperando en la banca

hasta que me llamen, sonriendo,

mi amigo Pablo y el Mágico González

para jugar con ellos.

 

16°07’12.1″N 93°48’11.7″W – (Tonalá, Chiapas)

 

Ho 11 anni, ora e per sempre.

 

Sono nato nel Barrio FendeSal in Soyapango,

vicino a San Salvador, ma a me nessuno,

mai, mi ha salvato.

 

Mio padre è stato ucciso dai pandilleros* 1

della Mara Salvatrucha,

gli tolsero una bibita e uno spicciolo; non aveva altro,

guadagnava tre dollari al giorno alla discarica.

 

Io lo aiutavo a tirare il carretto

e a volte trovavamo del cibo

nei sacchi di rifiuti arrivati da Metrocentro

e tornavamo a casa felici.

 

Sono scappato da Soyapango con Pablo, quindicenne,

il mio amico di strada.

 

Voleva diventare un calciatore come me e giocare

nella Selecta*2, saremmo andati nella MLS per tentare fortuna,

per ciò cercammo di arrivare negli Stati Uniti,

dove ci sono più dollari che pandillas*3.

 

In un locale messicano,

a Coatepeque, in Guatemala, guardai in TV

un grande documentario sul Mágico González:

giocando nel miglior Cádiz della storia

segnò due gol contro il Barcellona

l’anno di nascita di mio padre: 1984;

piansi per l’emozione.

 

Mancavano due giorni al confine con il Messico;

attraversammo il fiume e salimmo sul treno La Bestia*4

dopo Tecún, in Città Hidalgo.

 

Prima di Arriaga mi sono addormentato

e sto ancora cadendo.

 

Mi porterò dietro per sempre, come il Mágico,

un 11 tatuato sulla schiena;

forse per il numero di sacchi in cui custodirono,

tutto spezzato, il mio corpo;

forse perché indossavo la t-shirt della Selecta

con lo stesso numero o perché la morte reca

l’infinito 11 dei binari del treno inciso sul ventre.

 

Prima di cadere, Pablo mi raccontò questo sogno:

 

Ho visto Roque Dalton risorgere tra i vivi

e tornare nel mondo dei morti.

Alla sua destra, il Mágico González dribblava la Morte

e faceva la “culebrita macheteada” 5

calciando teste decapitate dei pandilleros cuscatlecos,

facendoli un gran tunnel tra le gambe.

Lo stadio Flor Blanca era pieno, c’era un’immenso funerale

dove la folla piangeva i migranti morti.

 

So che Dio gioca a calcio lassù in cielo.

Ma non voglio ancora far parte della sua squadra.

 

Aspetterò in panchina

finché non mi chiamino, sorridendo,

il mio amico Pablo e il Mágico González

a giocare con loro.

 

 

NdT.
1  Pandilleros: delinquenti che appartengono a una organizzazione criminale conosciuta come Pandilla o Mara.
2  Selecta: Squadra nazionale di calcio
3  Pandillas: Gruppi di organizzazione criminale
4 La Bestia: Treno merci utilizzato dai migranti che parte dal Chiapas, e attraversa tutto il paese diretto verso il valico di Tijuana
5 Culebrita macheteada:  Mossa di calcio

Tania Pleitez Vela è nata a San Salvador, El Salvador. Professoressa di culture e letterature ispano-americane e ricercatrice presso l’Università degli Studi di Milano. Ha pubblicato tre libri di poesia: Nostalgia del presente (Índole Editores, 2014), Preguerra / Prewar (Kalina, 2017) e Semillas desterradas (Ediciones Sin Fin, 2022). È cofondatrice di FormArti e della Rete di ricerca sulla letteratura delle donne dell’America centrale (RILMAC).
Rocío Bolaños (San Salvador, El Salvador). Traduttrice, responsabile culturale e insegnante di inglese e spagnolo come lingue straniere. In Italia dal 2009. È fondatrice dell’associazione culturale FormArti con la missione di diffondere in Italia, soprattutto e non solo, la poesia di voci latinoamericane con particolare attenzione al Centro America. Ha pubblicato una raccolta bilingue spagnolo-italiano de La vida incierta (Nautilus Ediciones, 2022). É responsabile della sezione internazionale di Laboratori Poesia della Samuele Editore.
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