Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Ha all’attivo diverse pubblicazioni tra libri di poesia, romanzi, saggi, antologie. Ne cito solo alcuni tra cui, per la poesia, L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme, 2005), La vestaglia del padre (Aragno, Torino, 2019) e Per sempre vivi (Pellegrini, 2024, Premio Poesia del Mezzogiorno). Per i romanzi Il talento della malattia (Avagliano, Roma, 2012), L’età bianca (Avagliano, Roma, 2016), Le case dai tetti rossi (Fandango, Roma 2022, Premio Prata).
La scrittura di Alessandro Moscè è densa e nello stesso tempo fluida, perché viva dentro un andamento narrativo che della poesia mantiene il ritmo e il suono. Una scrittura radicata nella sua terra d’origine che non è solo lo sfondo su cui egli vive e costruisce, attraverso la ricchezza delle immagini, la sua poesia, ma è parte del suo essere. Tanto che il paesaggio compenetra e crea il mondo interiore del poeta, ne costituisce una sorta di mitologia personale che ha anche il volto delle persone, nonni, genitori, zii, che lo hanno costellato e arricchito con la loro feconda presenza. Ed è questa familiarità di luoghi e di persone che rende la poesia di Alessandro Moscè un luogo in cui ritrovarsi, riconoscersi e confrontarsi con sé stessi, come sempre accade con la vera poesia. Una poesia che rende conto della ricchezza della vita coi suoi risvolti dolorosi quali la malattia, vissuta dal poeta quando era adolescente, il lutto, ma anche la gioia, l’allegria e la spensieratezza che si esprime attraverso l’ammirazione per la bellezza femminile e lo sport, il calcio nello specifico, entrambi motivi ricorrenti nelle sue poesie. In particolare il calcio profondamente legato al ricordo del padre col quale condivideva il tifo per la Lazio e diviene espressione viva dell’amore che al padre lo legava e a cui lo lega ancora. La sua scrittura vive dunque in un’intima tensione a tessere la trama della sua esistenza su un piano dove essa s’incontra con l’altro e diviene dialogo. C’è, infine, nella poesia di Moscè il ricordare, il rievocare, ossia il riportare alla luce qualcosa che in noi vibra di nostalgia e sfugge al nostro sguardo al quale la poesia dona profondità di visione.
Lucianna Argentino
POESIE
Il filobus è passato due volte nel vortice dell’aria
partito dalla stazione di Ancona
con i cavi di sostegno elettrici in aria.
Nonno Ernesto era seduto in ultima fila
leggeva il giornale senza occhiali
i capelli tirati indietro dalla brillantina Linetti.
Nel brusio correva la vaghezza mattutina
i bambini indossavano il montgomery con gli alamari.
Tutte le voci erano un acuto, una canzonetta da orchestrali
mentre Federico Fellini rideva nell’aria opalina
da Per sempre vivi (Pellegrini, 2024)
***
L’inverno è traslucido nelle gocce di pioggia
dopo pranzo, nel vento fantasma
battuto sulle lapidi cimiteriali
di redivivi in altri paesi, in altre case
figuranti nel mese alchemico di febbraio
radunati nell’aldiquà
gli inguaribili della provincia annacquata
sotto cieli di perle celesti.
Oltre la porta, di sbieco
sembra di vederli in trasparenza
avvicinarsi e conversare
con i maglioni a righe, freschi di bucato
farsi perdonare per il pianto
di chi li ha persi e ritrovati
nella foschia a notte fonda
prima di un altro arrivederci
che ci viene addosso
dai pianerottoli dei piani superiori
da Per sempre vivi (Pellegrini, 2024)
***
Dovremmo rivederlo il mare nel brillio accecante
sì, anche quest’anno che non mi fermerò al ristorantino
anche quest’anno senza i capelli schiacciati
ognuno al suo caldo sfibrato.
Non mi dirai di comprare le caramelle all’anice
sfiorando l’imbocco dell’autostrada
se incomincerai a bamboleggiare
i tuoi vent’anni raddoppiati
il sogno franto dai cristalli di pioggia.
Sarà da un marciapiede all’altro il nostro andare
sperduto nel ritmo indiavolato di agosto
nelle piume del cuore di un figlio
sotto l’arco dalle braccia giganti
da Per sempre vivi (Pellegrini, 2024)
***
L’inverno sul balconcino della scuola
la pioggia e la neve piegavano gli ippocastani
un manto di ghiaccio sui vetri delle auto
sotto le gallerie buie della Pedemontana
la collina verde bottiglia rivestita di purezza
i marciapiedi bianchi di orme
ogni anno le giacche a vento chiuse dalla zip
gennaio, un mese morto sui gradini bagnati
le prime sigarette fumate a metà
nel tardo pomeriggio i liceali affacciati sul loggiato
la torre civica svettava sopra una veranda
più dell’amore a reclamare bellezza.
Bastava un bacio sui corrimani
per la felicità sciolta nel marmo arabescato
(inedito)
***
Il primo, ingombrante televisore a colori
con i margini sfocati, i cieli sfusi di Milano
le maglie dei calciatori fuori bordo
nella scatola magica dei quiz a premi
le voci alterate che non si abbassavano
nella passerella delle vallette con la permanente.
Inseguivamo la bellezza ammiccante
i sorrisi a comando degli spettatori
l’epoca di bocche allegre e frecce di pubblicità
la promessa di ingoiare il dolore
negli alberghi a tre stelle di Riccione
nelle albe miracolose sugli scogli della spiaggia
tra gli amori pacati dalla corrente di risacca
(inedito)
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