Tardo pomeriggio, luglio 1978. Elena è seduta sul marciapiede di via Stesicoro, di fronte la casa in cui ha vissuto fino a qualche tempo prima con Vittorio; aspetta i figli Roberto e Marcello. Vuole vederli. Indossa il suo abito preferito, è accaldata, assorta. Vede arrivare dalla stradina Roberto con degli amici. Marcello non c’è, Roberto si avvicina, gli amici rimangono in disparte. C’è imbarazzo, si scambiano battute veloci di carattere generico (tipico dialogo tra genitore e figlio adolescente sfuggente), poi Roberto torna dagli amici e scappa a prendere un gelato, scrollandosi immediatamente l’inspiegabile tensione montata in quei minuti.
L’estate del ’78, pubblicato dalla casa editrice Sellerio e uscito in tutte le librerie italiane il 22 Marzo 2018, è una raccolta di memorie familiari intime e dolorose dello scrittore e giornalista palermitano Roberto Alajmo. Un’immagine, quella di Elena in attesa. Apparentemente una delle tante immagini che nella mente spesso si sovrappongono, magari perdendo i contorni definiti. Invece quell’incontro si scopre essere un commiato. Ed ecco che assume tonalità più scure, distinte; diventa oggetto di un’indagine personale e doverosa. Sembrava uno dei tanti momenti ripetibili, recuperabili, e invece scivola via.
Non immediatamente al lettore è permesso di assorbire questa scena cardine nella sua completezza, poiché descritta a più riprese. Si riacciuffano i pezzi da ricomporre man mano che lo scrittore racconta frammenti della propria vita, tra passato e presente. Diventiamo testimoni di una storia che viene fuori poco alla volta, di tante storie dipendenti, di un’analisi, di fatti messi nero su bianco al fine di riavvolgere l’afflizione e la desolazione per poi liberarsene. È un montaggio particolare, sembra di scorrere un album di fotografie (ed effettivamente qualche foto c’è) non posizionate in ordine cronologico: ognuna racchiude elementi utili alla ricerca degli ultimi tre mesi della madre, intervallate da elementi saggistici sulla famiglia, sulla felicità e la capacità di riconoscerla quando è presente.
Coinvolti in questo viaggio dall’infanzia all’età adulta, tra tragedia e commedia, conosciamo Elena, sbirciamo nel suo animo, accarezziamo la sua sensibilità, il suo essere tanto impetuosa quanto delicata. È una donna “ca vulissi affirrare ‘u munnu, e ‘u munnu ci scappa ri manu”; dedica di Ignazio Buttitta che si permea di una sorta di profetismo. Il riverbero della vita di Elena si trasmette da una generazione all’altra. La morte in circostanze non del tutto chiare e la lettera delle sue ultime volontà, generano in Roberto la sensazione di aver stretto un tacito accordo con la madre, si formano dei grumi impregnati di una dannazione che lo porta a convivere col pensiero di una morte prestabilita. Sarà la nascita del figlio Arturo a spezzare la connivenza, e a scatenare il bisogno di rimettere tutto in discussione e di elaborare e interiorizzare diversamente gli episodi del passato.
Da lettrice mi sono chiesta se fosse davvero giusto rendere di pubblico dominio lettere e racconti così privati. Probabilmente sono stata portata a pensarlo perché mi manca il respiro al pensiero che qualcuno possa violare la mia intimità. È la ragione per cui all’inizio dei miei diari scrivo sempre che è vietato leggerli, anche in caso di morte (timore emerso quando – in seguito alla morte di mio padre – ho visto spulciare i suoi taccuini). Tuttavia questo dubbio si è dissolto presto, facendo spazio poco a poco a una sensazione diversa: mi sono sentita ammantata da un piacevole senso di tenera dolcezza. Ho apprezzato la prosa spontanea ed efficace, la mancanza di affettazioni, il modo in cui Alajmo racconta le emozioni più semplici e tratta temi tanto scottanti. Scrive per se stesso. Può suonare banale, eccessivo, ma qualcosa di Elena mi ha attraversata. E allora, forse, questo libro non è che il regalo più grande che lo scrittore potesse fare a una madre che “non voleva andar via in punta di piedi”.
a cura di Noemi Quattrocchi