Il primo volume dell’Autobiografia in movimento di Deborah Levy viene pubblicato nel 2013 nel mercato editoriale in lingua inglese. L’idea nasce da un confronto con Jacques Testard, editor britannico (fondatore di The White Review, all’epoca in Notting Hill Editions, ora editore di Fitzcarraldo). Lui le propone di scrivere un testo breve che riprenda il dialogo sulla scrittura, tra intenzioni e scopi politici, iniziato nel 1946 da George Orwell nel suo pamphlet “Why I write”. Quattro le motivazioni individuate allora dallo scrittore britannico:
- Puro egoismo, il desiderio che ciò che si scrive venga letto, ricordato, condiviso
- Entusiasmo estetico, il bello nelle parole, nei temi trattati, nelle storie che vengono raccontate
- Impulso storico, raccontare le cose per come sono e tramandarle
- Finalità politica, con l’aggettivo “politico” nel senso più ampio possibile, ovvero scrivere per far sì che la società si muova in una certa direzione.
Deborah Levy, drammaturga, romanziera e poetessa britannica accetta l’incarico e il risultato è “Cose che non voglio sapere”, i cui quattro capitoli prendono il nome proprio dalle motivazioni individuate da Orwell; il volume diventa il primo mattone per un progetto più ampio che è l’Autobiografia in movimento, tre titoli pubblicati nel 2013, per l’appunto, poi “Il costo della vita” nel 2018 e, infine, “Bene immobile” nel 2021. La notizia meravigliosa è che l’intera trilogia è disponibile in italiano, tradotta da Gioia Guerzoni per NN editore.
È interessante comprendere perché questa autobiografia vive e si muove – la definizione coniata da Levy in inglese è Living Autobiographies – e rifugge i canoni dei lavori autobiografici, ovvero un tocco di nostalgia inevitabile per i tempi andati, l’ordine cronologico dei fatti e una voce narrante in prima persona che si attiene alla verità oggettiva. Non che Levy ignori la verità, anzi, ma non c’è spazio per le convenzioni nella trilogia e l’obiettivo è scrivere della vita mentre la si vive, un’autobiografia in divenire che sconfina più volte nel saggio filosofico, nella scrittura di viaggio e, soprattutto, non dimentica la formazione letteraria di Levy con la presenza costante del confronto con le grandi autrici del passato che l’hanno ispirata. La più citata, anche nelle interviste, è Virginia Woolf a cui Levy dedica un inchino letterario in chiusura del terzo volume, proprio nell’ultima frase, citando velatamente “Una stanza tutta per sé”. Ma al di là dei ripetuti cenni, più o meno espliciti, Levy raccoglie l’eredità di Woolf e trasforma questo suo progetto letterario nel racconto fedele di cosa voglia dire essere scrittrice in un mondo maschile, editoriale e non, costruito da uomini per altri uomini, a loro immagine e somiglianza. Levy fa di certe istanze femministe il suo faro e ricorda come il sistema patriarcale si insinui anche in aree che parrebbero di non sua competenza. Le donne pubblicano libri da sempre, si potrebbe obiettare, oppure, come spesso ripetono alcuni addetti ai lavori, il mondo dell’editoria è in mano alle donne: bugie bianche per sentirsi migliori.
Levy, invece, ha il coraggio di riportare il pensiero di Adrienne Rich, pensatrice, scrittrice e poeta femminista, che lapidaria afferma:
Nessuna donna può davvero far parte di istituzioni generate da una coscienza maschile.
Un’ottima premessa, soprattutto perché Levy aggancia questa realizzazione al suo ruolo di madre:
Mi era sempre più chiaro che la maternità fosse di fatto un’istituzione generata dalla coscienza maschile. […] L’uomo aveva bisogno di una compagna, madre ovviamente, che annullasse i propri desideri e si occupasse dei suoi, e poi quelli di tutti gli altri. E così noi abbiamo provato a reprimere i nostri desideri e ci siamo rese conto che ci veniva proprio bene.
Siamo nel cuore di “Finalità politica”, il primo capitolo di “Cose che non voglio sapere” e il tema del desiderio delle donne, anche applicato alla narrativa e alle “personagge” di Levy, tornerà spesso in tutta la trilogia. Cita anche Marguerite Duras de “La vita materiale”, a proposito della quale Levy scrive:
Forse quando Orwell descriveva l’egoismo puro come una qualità necessaria per uno scrittore, non pensava all’egoismo puro di una scrittrice. Anche la scrittrice più arrogante deve sforzarsi costantemente di costruire un ego abbastanza robusto da permetterle di superare gennaio, per non parlare di dicembre. L’ego che Duras si era guadagnata a fatica mi parla, mi parla sempre, mi parla in tutte le stagioni.
È difficile essere scrittrici, più di tutto è difficile trovare la propria voce e farla sentire nel mondo letterario. Lo sapeva Virginia Woolf, lo sapevano anche Adrienne Rich, Marguerite Duras e, ovviamente, Simone de Beauvoir.
In “Impulso storico”, il secondo capitolo, Levy si affida all’istinto autobiografico raccontando della sua infanzia in Sudafrica, il padre prigioniero politico perché membro dell’African National Congress e attivista anti-apartheid, e il trasferimento in Inghilterra quando Levy ha nove anni. L’Inghilterra diventa la sua nuova casa, il luogo in cui si forma e scopre la scrittura.
Scrivere mi faceva sentire più saggia di quanto non fossi in realtà. Saggia e triste. Era così che pensavo dovessero essere gli scrittori.
E poi ammette, sconvolta dal divorzio dei genitori e affaticata nella nuova vita inglese:
Sapevo di voler diventare una scrittrice più di ogni altra cosa al mondo, ma ero sopraffatta da ogni altra cosa e non sapevo da dove cominciare.
Ecco, allora, come nasce una scrittrice: dal desiderio, l’ambizione e il dubbio di non essere capaci di sapere «portare il lavoro, la mia scrittura, nel mondo». Nel caso di Deborah Levy, una scrittrice nasce anche dagli insegnamenti che la già citata Virginia Woolf ha lasciato proprio in “Una stanza tutta per sé” e la constatazione che nella scrittura le autrici sono «in guerra con il proprio destino». Nel già citato sistema patriarcale che si estende anche nel mondo della scrittura, Levy comprende che:
[…] per diventare una scrittrice avevo dovuto imparare a interrompere, ad alzare la voce, a parlare un po’ più forte, e poi ancora più forte, e poi a parlare semplicemente con la mia voce, che non è affatto forte.
Si chiude così il primo volume della trilogia e ci vogliono cinque anni affinché Levy ritorni sulla scrittura, la sua vita e la letteratura che l’ha ispirata con “Il costo della vita” in cui vive da donna di cultura, privilegiata, capace di sostentarsi con il solo lavoro di autrice, ma anche divorziata e con due figlie adolescenti ad abitare con lei in un appartamento nella periferia londinese, investita del ruolo di «architetto del benessere familiare» senza essere stata interpellata a proposito; ma alle donne spesso tocca il destino e il ruolo che la società patriarcale impone. In questo e nel successivo volume Levy si interroga a lungo a proposito del ruolo della donna nella società moderna, costellato di insoddisfazioni perenni come le nevi a imbiancare e nascondere ambizioni e velleità. Ricorre alla poesia di Emily Dickinson per spiegare cosa significa essere ignorate in quanto donne e in quanto poeta, per questo il passo successivo, ispirato da Dickinson, ma ovviamente ancora da Woolf, è trovarsi un posto in cui scrivere, la stanza tutta per sé, il luogo lontano dai dolori del passato recente. La soluzione è nel capanno della vicina Clelia, attrice e libraia, luogo fisico, ma anche dell’anima, in cui Levy proietta i suoi riferimenti e i bisogni di scrittrice.
Allora non potevo saperlo ma avrei scritto tre libri in quel capanno, incluso quello che state leggendo ora. È lì che ho cominciato a scrivere in prima persona, usando un io che mi era vicino ma che non ero io.
La voce narrante della trilogia è stata oggetto di molte interviste e in ciascuna la scrittrice inglese si sofferma a lungo a circostanziare il lungo lavoro di ricerca di una voce che la rappresentasse, ma non fosse l’esatto calco di sé. Al New Yorker, in occasione dell’uscita del terzo volume, Levy dichiara che l’intera opera è volta a cercare il tipo di donna in cui cerca di trasformarsi da tempo e la conclusione di questa ricerca è più semplice di quanto si pensi: perché non crearla sulla pagina? Un nodo importante perché cuore dell’intera opera di Levy, ovvero la costruzione (e talvolta ricostruzione) del sé in un mondo patriarcale, come spesso puntualizza, e avvezzo alle categorizzazioni. Il ragionamento si estende, poi, anche alla narrativa, con Levy alla dichiarata ricerca di quello che lei chiama, sempre nella già citata intervista col New Yorker, il «major female character», il personaggio femminile principale con desideri più complessi dell’adattare la propria vita a quella di coppia con l’uomo ideale. Una donna che non abbia paura di desiderare al di fuori di un lui e della famiglia. Le viene in soccorso, in questa ricerca, persino Lila della quadrilogia de “L’amica geniale” di Elena Ferrante, che chiude la sua avventura su pagina trasformandosi in un «personaggio femminile assente», i cui desideri sono altrettanto assenti. E di questi personaggi dai desideri assenti trova più definizioni: «dee umiliate che la vita ha reso folli», ma soprattutto «beni immobili di proprietà del patriarcato». Da qui il titolo del terzo volume, “Bene immobile”.
È così misterioso questo desiderio di opprimere le donne. È ancora più misterioso quando sono le donne a opprimere altre donne. Posso solo pensare che siamo così potenti da avere bisogno di essere zittite di continuo.
Levy prosegue con la sua indagine di sé su più fronti: dagli oggetti, alle case desiderate e reali, al lutto per la perdita dei genitori, passando per il lutto figurato di un matrimonio fallito e una vita da ricominciare, ma insiste e ritorna spesso sulla scrittura, sulle interazioni con gli altri e con altre donne soprattutto. Ne “Il costo della vita” interagisce con una studentessa che le mostra un suo testo. Teme di essere derisa, sminuisce sé stessa e il testo e Levy decifra una verità importante di cui è difficile leggere: la giovane donna, come moltissime altre donne al mondo, «deve nascondere un suo talento e la sua bravura per essere amata» in un sistema maschile così radicato. Nessuno dice mai alle donne qualcosa sul loro talento: non è necessario, non è interessante.
In “Bene immobile”, terzo e ultimo capitolo, almeno fino ad ora, Deborah Levy fa esplodere la sua scrittura immaginifica e ironica, racconta di ciglia di persone appena conosciute che si estendono «dai negozi di bagel e dal grigio acciottolato di East London fino ai deserti e alle montagna del New Mexico», «lenzuola di seta più leggere del peso della mia vita», e si diverte a chiudere ragionamenti corposi e episodi di vita con frasi secche e brillanti, da studiare nei manuali di scrittura. Levy cambia le carte in tavola quando si parla di scrittura e le ragioni dietro di essa, fino a una conclusione della trilogia talmente portentosa da risultare ovvio che potesse scriverla solo un’autrice di questo calibro.
I libri che ho scritto sono miei e i diritti d’autore andranno alle mie figlie. In questo senso, i miei libri sono la mia proprietà. E non è una proprietà privata. Non ci sono cani feroci o guardie al cancello, né cartelli che vietano di tuffarsi […] impazzire, diventare famosi o giocare sull’erba.
Quella stessa erba che era stata vietata a Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé”, nell’Oxbridge college, perché riservata solo agli studiosi, agli uomini. Nella dimensione contemporanea di Levy quell’erba, e l’erba di ogni suo libro, è territorio comune per sostare, leggere, divertirsi, sperimentare e chissà, anche diventare scrittrici.