Cosa spinge un uomo a voler riconquistare la propria identità dopo anni vissuti sotto falso nome? È una domanda che avrebbe messo in difficoltà anche Luigi Pirandello che di maschere e di alter-ego si è occupato a lungo e a fondo durante la sua carriera di scrittore e drammaturgo. Nick Murphy, meglio conosciuto con il moniker di Chet Faker, non è solo un caso assimilabile a quello de Il Fu Mattia Pascal, ma è soprattutto la prova che ricominciare, mettendo un punto a quello che è stato è possibile.
Nick Murphy è quel tipo di artista incapace di fare musica solo per il piacere di creare una canzone orecchiabile o di dare forma a un album composto da brani non collegati tra loro. Non basta. Ogni elemento deve essere al suo posto, inserito perfettamente nell’ordine cosmico. Ed è proprio da questo assunto che riparte la carriera del producer australiano, finalmente libero di essere se stesso.
Run Fast Sleep Naked – la seconda fatica discografica ad essere pubblicata con il suo vero nome dopo l’EP Missing Link – è un album che rispecchia l’intenzione di mettersi a nudo, senza dimenticare però il passato, quello di Chet Faker si intende. Dunque eccolo, pronto a raccontare il cambiamento che ha vissuto, ma anche a ripercorrere i successi che lo hanno portato a esibirsi sui palchi di tutto il mondo.
È un lunedì sera di inizio ottobre e sembra ancora innaturale uscire di casa mettere la giacca. Ieri ci preparavamo a inaugurare la stagione estiva dei festival, mentre oggi siamo indecisi sugli strati di vestiario da indossare per essere sufficientemente coperti all’aperto e per non sudare negli ambienti chiusi. Lo show di Nick Murphy al Teatro della Concordia di Venaria Reale, comune alle porte di Torino famoso per la magnifica Reggia, arriva al momento giusto, quando la settimana è appena iniziata e la strada è inevitabilmente in salita.
Un brivido percorre la schiena appena entriamo nella sala del teatro: le note di chiusura di Hear It Now (il primo brano di Run Fast Sleep Naked) diventano l’inizio di Gold, una delle canzoni più celebri dell’artista di Melbourne e a seguire 1998, trascinante al punto da non vedere nessuno dei presenti immobile. Un ottimo modo per accogliere e riscaldare il pubblico intirizzito dai primi freddi.
Nick Murphy è allo stesso tempo analogico e digitale, salta da uno strumento all’altro, risultando sempre perfettamente a proprio agio e calato nel contesto, capace di passare da The Trouble With Us, brano super pop pronto per essere sparato in radio e al loop infinito di Birthday Card all’orientaleggiante ed energica Yeah I Care a una commovente esecuzione interamente al piano di I’m Into You, che blocca il respiro per l’intensità, l’energia, ma soprattutto il calore che una voce e un piano suonato con amore può provocare.
È tempo di ampliare gli orizzonti e di ridisegnare i propri confini, Nick Murphy lo sa. La sua capacità di vedere attraverso le persone che lo ascoltano ne è la dimostrazione. Un cantautore deve essere attento anche a questo aspetto. Chet Faker è stato tra i primi a portare a una platea più vasta la musica elettronica, Nick Murphy, invece, insegna che la musica ha diverse facce al di là dei generi e delle etichette. A un concerto di Nick Murphy ci sono momenti in cui sentirsi vicini e abbracciarsi con lo sguardo. Le prime note di Talk is cheap fanno questo effetto a tutti.
Le farfalle volano liberamente nello stomaco, mentre cantiamo il brano in coro: quel momento doveva arrivare prima o poi e doveva essere esattamente così e in questo preciso momento. Ma le emozioni non bastano a rendere indimenticabile un concerto. Le ultime due canzoni, Dangerous e Sanity, ci portano in una dimensione lontana e inesplorata. Per un’ora e mezza dimentichiamo che è lunedì sera, tutto quello che abbiamo programmato per la settimana, gli incontri e le scadenze. Forse è questo l’effetto che deve fare un buon concerto: ottimo lavoro Nick.