L’essenza del suono | Nils Frahm

L’anonimato di una serata di inizio maggio, svuotata di qualunque pretesa primaverile dalla pioggia insistente e dai grigiori milanesi, si presta ad essere l’inatteso sfondo neutro in grado di far risplendere ancor di più –se possibile-  l’esibizione di Nils Frahm, equilibrista musicale perennemente in bilico fra le definizioni di compositore classico e artista elettronico. Assistere ad una performance live, nel senso più puro e profondo del termine, si concretizza, infatti, in una fortuna (in linea con le attese) occorsa al pubblico di un Fabrique pieno per l’unica data italiana del genio berlinese: un’esperienza sensoriale ai limiti della trascendenza, capace di avvolgere gli astanti in un manto di magica melodia, rendendoli ebbri di pathos e dimentichi per due ore di vite comuni e cellulari nevrotici.

All’interno dell’oscuro antro del locale si officia, infatti, un vero e proprio rito avente tutti i tratti specifici della religiosità, a partire dal rigido silenzio richiesto dall’artista, condizione imprescindibile per poter assaporare ogni stilla del suo prezioso sound. Abbeverarsi ad una tale fonte fa sentire i presenti come novizi di fronte ad un sacerdote musicale in t-shirt nera e simil-basco calato in testa a coprire la calvizie, agile nel districarsi fra le innumerevoli macchine che danno vita a quello che è a tutti gli effetti un altare analogico vintage. È facile scorgere un Roland Juno 60, un piano elettrico Fender Rhodes, un Moog Taurus e un pianoforte a coda ma in realtà sono innumerevoli gli elementi che si compongono in una scena che si colloca a metà tra l’officina di uno scienziato illuminato e la consolle di una navicella spaziale. Se per Frahm il palco altro non è se non una naturale estensione del suo studio -fisicamente trasportato da Berlino e rimontato in ogni tappa del tour- per chi ascolta rappresenta uno spazio a cui si ha accesso privilegiato per un voyeuristico sfogo, un buco della serratura attraverso cui sbirciare per carpire i segreti di un incredibile talento.

Circondato da lanterne calde che emanano una luce soffusa, l’artista tedesco inizia a tessere le sue melodie intrecciando le note in fitte trame come immaginari fili su di un telaio, attingendo a piene mani dal suo ultimo lavoro, All Melody. In un’atmosfera tiepida e sicura, come all’interno di un grembo materno, il musicista sembra in grado di raffinare ogni suono, estraendone l’essenza ed offrendola poi all’orecchio nella sua forma più cristallina ed essenziale. Sulle note di My Friend The Forest il silenzio è paradossale, paragonabile a quello richiesto all’opera: i microfoni sono posizionati tanto in profondità all’interno dei vari strumenti, che la miscelazione meccanica di martelli e feltri è udibile e si trasforma in parte integrante del tessuto musicale. In uno sforzo di stupefacente sincronia ed abilità nel giustapporre strati di loop ritmici ad improvvise variazioni sincopate, ci si immaginerebbe un viso immobile teso in una smorfia di concentrazione, ed invece Frahm è totalmente a suo agio mentre sembra danzare, non potendo far a meno di esprimersi fisicamente, immerso nella sua magia anima e corpo.

Il livello di partecipazione visiva ed emotiva si dilata ancor di più con Sunson e #2, con l’artista ora impegnato in un inarrestabile ed incessante andirivieni fra le diverse postazioni, in un costante ma delicato controllo di ogni dettaglio. Anche nelle pause in cui si rivolge al pubblico, svelando uno spirito ironico e piuttosto divertente (nel fingere di insegnare come si compone un “pezzo cool” o prendendo in giro la pietosa pratica della finta uscita di scena prima dell’encore) Frahm parla sottovoce, quasi a non voler spezzare l’incanto. Terminato il primo blocco musicale, giunge il momento dell’immancabile Says, rivisitata per l’occasione nella parte ritmica, con flutter e marimbe preferiti alle tradizionali percussioni, a testimonianza –se mai ci fosse bisogno di ulteriore conferma- di quanto la parola “live” sia scritta a caratteri cubitali. Accelerazioni e frenate si susseguono in un flusso continuo e le mani del ragazzo prodigio sono un po’ lo specchio delle due anime della sua musica, da un lato la sinistra insistente a dettare i tempi e le melodie, dall’ altro la destra estrosa ad arpeggiare selvaggia. Gli insegnamenti ricevuti da giovane da Nahum Brodsky, discepolo della scuola di Ciajkovskij, sono una garanzia compositiva di livello incalcolabile: le note che riempiono l’aria rompono definitivamente i confini tra musica classica e contemporanea.

Il finale composto dal binomio Toilet Brushes – More, estratti da Spaces, è un’esplosione di sentimenti dopo un intro in suspence: colpendo con –letteralmente- spazzole da wc le corde del pianoforte aperto, Frahm introduce una melodia spruzzata di jazz e suonata al piano con una tale intensità di esecuzione da poter tranquillamente essere proposta in un club, pur non avendo alcun accompagnamento ritmico. L’ennesima lezione in tema di originalità e ricerca che lo inquadra come una sorta di re Mida musicale. In pieno stile berlinese, la contaminazione e lo sperimentalismo sono tratti fondamentali della musica del compositore tedesco, con trame attraversate al contempo dalla malinconia di un pianista e dall’eredità dei pionieri della tastiera elettronica anni ’70; ma l’avanguardia proposta da Frahm è al servizio dell’estetica stessa, volta a fiorire costantemente in un’oasi di bellezza incantata. Invece di sorprendere il suo pubblico, cercando di scomodarlo per suscitare reazioni, lo eleva ad un livello superiore, tranquillizzandolo. Durante il ritorno in macchina, cerchiamo disperatamente di trattenere questo dono prezioso il più a lungo possibile, in una sorta di comfort-zone interiore che pian piano si sgretola in una scia luminosa dietro di noi, mentre ci riaffacciamo disincantati sul mondo reale.

 

Fotografie di Alessia Naccarato

 

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