Non so se sia una condizione comune o soltanto mia ma generalmente mi rendo conto di aver visto un concerto memorabile quando la giornata successiva trascorre in una specie di hangover contrario. Ci si sveglia bene indipendentemente dai chilometri macinati per raggiungere la venue e dall’ora di rientro a casa. Già dal momento in cui si aprono gli occhi si ricorda perfettamente ogni dettaglio, i pezzi, gli strumenti, il pubblico presente e quando la giornata inizia tutto prosegue come sempre, con l’unica differenza che in testa riecheggiano ancora le note della sera prima e si ha quasi un bisogno fisico di averne ancora. Come risultato The Hope Six Demolition Project, nono album in studio di PJ Harvey, è in loop nel mio impianto stereo da un numero imprecisato di ore, ho aggiornato la playlist di Spotify, riempito la chiavetta USB e guardato live su Youtube dal 1993 a oggi ma ancora non posso dire di essermi ripresa del tutto.
Polly Jean ha fatto la sua entrata sul palco del teatro Obihall di Firenze intorno alle 21.45 del 24 ottobre accompagnata da un corteo di 9 musicisti e al suono di una marcia di tamburi. La scenografia è minimal e la cantante inglese si posiziona al centro incorniciata da uno sfondo grigio a cassettoni che ricorda le pareti insonorizzate degli studi di registrazione. Appena tutti trovano posizione si parte con Chain of Keys, quarta traccia dal suo ultimo lavoro. Una voce cristallina altissima si distingue dal coro che la accompagna e il pubblico si quieta lentamente, avvolto da quella polifonia magnetica. Non c’è pausa tra i successivi quattro pezzi, sempre da The Hope Six e PJ in un fluttuante abito nero è teatrale nella sua gestualità da diva del cinema anni ’40, nelle espressioni che si distinguono anche a notevole distanza e dai movimenti fluidi e ipnotici. Come una regina delle tenebre si muove lentamente sul palco, a passi lunghi e senza dire una parola dall’inizio alla fine con l’unica eccezione fatta per presentare in italiano la band composta tra gli altri dai collaboratori di vecchia data Mick Harvey e John Parish e dai nostri connazionali Enrico Gabrielli e Alessandro Stefana (rispettivamente di Calibro 35 e Guano Padano).
Quando si sentono le prime note di Let England Shake dall’omonimo album del 2011 il pubblico esplode di nuovo mente Polly avvolta da una luce arancione calda ondeggia giocando con il microfono. Dallo stesso album estrarrà i tre pezzi successivi (The Words That Maketh Murder, The Glorious Land, Written on the Forehead) prima della meravigliosa To Talk To You dall’album White Chalk del 2007 da cui ci regalerà anche la delicatissima The Devil. Ancora qualche nuova traccia e poi è il momento di 50ft Queenie, unico strappo alla regola ed elemento di rottura in un concerto altrimenti omogeneo e perfettamente in linea con il suono della nuova PJ. Dispiace un po’ vederla in questo pezzo senza chitarra ma ci si rende conto che ormai è soltanto un vezzo degli affezionati perché la percezione generale è che a lei non manchi nulla e infatti riesce a trovare il suo incastro perfetto con il resto della band anche a mani vuote. Su Down By The Water la scenografia si alza e il palco si semplifica ulteriormente lasciando soltanto un tendone nero in lontananza. To Bring You My Love (dall’album omonimo del ‘95 come la precedente) e River Anacostia chiudono il set in un’atmosfera cupa e sognante lasciando i presenti sospesi in uno stato di torpore emotivo. Il pubblico si scioglie in un applauso sentito e lunghissimo che durerà instancabilmente per tutta la pausa. Per l’encore PJ Harvey pesca ancora una volta da To Bring You My Love con Working For The Man e affida invece la chiusura all’inaspettata e sensuale Is This Desire? (da Is This Desire?, 1998). Near the Memorials to Vietnam and Lincoln e Medicinals sono le uniche due grandi escluse dal nuovo album in una setlist che varia leggermente da quella di Milano.
Dopo l’ultima nota Polly Jean e i suoi nove polistrumentisti si allineano a bordo palco e ringraziano il pubblico con un inchino composto come lo è stato tutto il concerto. Oltre alla cantante inglese, impeccabile in ogni pezzo, una menzione speciale va sicuramente alla band che ha contribuito a fare la differenza. I nove si sono scambiati di continuo in un’elegantissima danza tra i più svariati strumenti, dal sax baritono al clarinetto basso passando per violini e tastiere, con una perfetta coordinazione in cui tutto risultava fluido e naturale, mai forzato. Hanno eseguito ogni pezzo magistralmente con un gusto e un tocco misurato che si ritrovano uguali soltanto tra i migliori jazzisti.
Finisce così, senza fronzoli o troppe parole, un live di classe che nonostante la durata ridotta (un’ora e trenta circa) ha saputo entrare nella mente e nel cuore di ognuno dei presenti.