Elsa Morante, l’anarchica (in)felice

a cura di Chiara Rotondi

Quando pensiamo a Elsa Morante, ci vengono subito in mente il suo romanzo più famoso e controverso, La Storia (1974) e la sua lunga, turbolenta relazione con Alberto Moravia. Aspetti significativi, ma che non esauriscono la complessità della sua figura, né in quanto persona, né come poeta. Innanzitutto Elsa Morante è stata scrittrice (o scrittore, come voleva la si chiamasse) ancor prima che compagna o moglie; in più, fu un’autrice civilmente impegnata da almeno dieci anni prima de La Storia, e con posizioni a dir poco controverse per l’epoca.

Lo dimostrano tre scritti passati un po’ in sordina: Pro o Contro la Bomba Atomica (1965), Il Mondo Salvato dai Ragazzini (1968) e Piccolo Manifesto dei Comunisti (senza classe né partito), scritto nel 1970 pensando all’amico Goffredo Fofi, all’epoca militante di Lotta Continua; ma non glielo recapitò, né voleva pubblicarlo. È stato ritrovato postumo da Carlo Cecchi e Cesare Garboli e uscito nel 1988.

Perché queste opere sono state meno conosciute? Innanzitutto, perché La Storia è un romanzo volutamente popolare, di cui Morante ha calibrato sapientementela scrittura, adattandola a un target più ampio possibile, e limando forma e contenuto con l’obiettivo di suscitare un certo pathos nel lettore. In più, questi tre testi non sono di fiction; e adottano un tono che Fofi ha efficacemente descritto come di “predica, o comizio”. Più di tutto però, in queste occasioni Morante – progressista e convintamente antifascista – sferzò critiche dure verso la sinistra dell’epoca: elaborando un pensiero indipendente da militanti e scrittori affiliati sia al PCI che alla sinistra extraparlamentare, suscitò una reazione di imbarazzato silenzio, finendo per essere relegate come “opere meno riuscite”.

Frutto dello studio intenso di testi religiosi – orientali e non – di filosofia (Platone, Spinoza, Simone Weil) e di riflessioni personali, si mostrano però non solo profetici, ma ancora utili oggi per capire il mondo.

 

A metà degli anni sessanta l’autrice si era appena lasciata alle spalle il periodo più difficile della sua vita. Come racconta Graziella Bernabò in La Fiaba Estrema, agli inizi del decennio Morante e Moravia si separarono: smisero di vivere assieme, ma rimasero legalmente sposati e continuarono a vedersi. Lei si legò a un giovane americano, un pittore di nome Bill Morrow. Iniziarono una relazione aperta – lui frequentava anche altri ragazzi e ragazze – all’incrocio tra l’amante e il figlio; Morrow era tossicodipendente, aveva tentato più volte il suicidio. Tramite le conoscenze di Moravia, Morrow espose i suoi quadri, ma non avendo ottenuto grande successo, decise di tornare in America con Elsa. Lei però a malincuore rifiutò: voleva tornare a scrivere a tempo pieno. Un mese dopo – nell’aprile del 1962, a una festa, con LSD in corpo – Morrow precipitò misteriosamente da un grattacielo e lei cadde in una lunga, irreversibile depressione.

Gli eventi personali, le riflessioni e gli studi l’avevano mutata profondamente. Simone Weil (che predicava un impegno civile radicale, all’insegna di un progetto politico e religioso che abolisse e aborrisse il potere in favore della comunione totale del cosmo) la ispirò più di tutti per l’elaborazione di quella che sarà la propria filosofia personale.

Secondo l’autrice, la condizione dell’uomo contemporaneo si basa su tre antitomie: Realtà contro Irrealtà, Potere opposto all’Arte, Felicità contro Infelicità. Questi concetti si intrecciano tra loro, e si rincorrono in Pro o Contro la Bomba Atomica, Il Mondo Salvato dai Ragazzini, Piccolo Manifesto dei Comunisti (Senza Classe né Partito), rispettivamente una conferenza, una raccolta di poesie e un manifesto politico.

Per Morante, il disonore più grande dell’uomo è il Potere. Dividendo gli uomini in padroni e servi, tradisce il diritto fondamentale di ognuno: la libertà dello spirito, cioè la possibilità conclamata di pensare autonomamente. La conseguenza più grave è che l’uomo finisce per credere che questo stato di cose (Irrealtà) sia invece la Realtà, e che questa sia l’unica possibile. Nella conferenza, Morante afferma che la bomba atomica è proprio il simbolo di questa condizione, nella sua declinazione piccolo-borghese e capitalista. L’antidoto al Potere e all’Irrealtà che genera è l’Arte: allorché l’artista – sia esso scrittore, musicista o altro – mostra con la sua opera la Realtà effettiva, si accende una speranza. L’Arte è l’opposto della disintegrazione prodotta dal Potere.

Non tutti coloro che fanno arte, però, sono artisti. Il vero scrittore, ad esempio, si occupa “di tutto tranne che della letteratura”: il mondo non si cambia nei salotti intellettuali o nelle accademie, ma osservando i conflitti che lo popolano, le sue contraddizioni, e riversandole in un’opera. Essendo antitetico al Potere, l’artista genererà scandalo, perché mostrerà, ad esempio, quanto osceno sia che il mondo sia diviso su basi del tutto arbitrarie: genere, etnia o classe.

Non lo farà sviluppando un’opera alla mercé di un’ideologia, però: l’artista può e anzi deve politicizzarsi, ma se farà propaganda acefala in nome della visibilità o del successo dettato dal partito del momento, sarà semplicemente disonesto: un servo del Potere come un altro.

E chiedo una tenerezza al buio della stanza,
almeno una decadenza della memoria,
la senilità, l’equivoco del tempo volgare
che medica ogni dolore…
Elsa Morante – Addio

Nelle poesie de Il Mondo Salvato dai Ragazzini, pubblicato nel fatidico ’68, ritorna in maniera più approfondita il problema Realtà contro Irrealtà. Nel cuore del libro – dopo una poesia dedicate a Morrow e giocosi esperimenti poetici scritti sotto effetto di droghe – Morante inserisce una “canzone popolare” in cui divide l’umanità in Felici Pochi (F.P.) e Infelici Molti (I.M).

I F.P. hanno compreso il vero significato del concetto di Realtà; hanno smesso di occuparsi di questioni infime come reputazione, bellezza o appagamento fisico: uno scopo più grande li guida. F.P. “di fama internazionale” sono Mozart, Rimbaud (dunque veri artisti); ma anche Weil, Gramsci, Platone, Giordano Bruno; i più noti tra gli Infelici Molti sono invece Hitler e Mussolini. Un F.P. però – e qui sta la parte più difficile della sua predica – non è solo un grande artista o “intellettuale organico” ma ogni rivoluzionario che, in base alle sue possibilità, inceppa la macchina infernale degli I.M., comandata sì dai dittatori, ma che di fatto prospera grazie a masse incoscienti o in malafede di tanti Infelici.

Per Morante, come spiega nel Piccolo Manifesto, non c’è differenza tra l’opera di Gramsci o Mozart e quella di “un fabbro che fabbrica un chiodo quadripunte contro gli automezzi nazisti”: sono due facce della stessa medaglia, due espressioni equivalenti della libertà dello spirito. Felice, intona Morante, è anche Paolo Rossi, studente universitario ucciso nel ’66 da un gruppo di estrema destra, durante una protesta. Se è un ragionamento che suona blasfemo – come può essere felice un condannato al rogo o un incarcerato, o un giovane morto prematuramente? Come può essere infelice un dittatore con una nazione ai suoi piedi? – è perché, in via definitiva, la Realtà non è quella che appare.

La filosofia di Morante si può applicare con successo all’attualità: F.P. dei nostri giorni è Patrick Zaky, attivista e ricercatore incarcerato nel suo paese per un crimine inesistente; è Greta Thunberg e chiunque la segua nella sua battaglia (e non a caso caso molti hanno accostato il libro al movimento ambientalista). Sono i protagonisti delle proteste in Nigeria, Russia, gli attivisti in America o a Hong Kong. Sono “nei ghetti/ negli harlem/ in Siberia/ nel Texas/ a Buchenwald/ in galera/ sulla forca sulla sedia elettrica/ nel suicidio”.

 

Qual è dunque la soluzione all’oscenità del mondo? La Rivoluzione. Anche questa, come “arte”, è però una parola che troppo facilmente è attribuita a cose e persone che rivoluzionarie non sono, perché porta con sé un antico fraintendimento: fino ad ora gli uomini hanno imposto il progresso tramite iniziative e movimenti già infetti dal Potere: così per Morante sono ugualmente false rivoluzioni quella fascista, quella leninista o quella del suo tempo. Se per attuare un miglioramento ci si organizza in maniera gerarchica o verticistica, indipendentemente dal fatto che il Potere sia tutto ai soviet o a un Duce, allora si è davanti al vero spettro che si aggira per il Mondo: la Falsa Rivoluzione. La vera Rivoluzione dovrebbe essere permanente, fine e principio dell’azione tutta. “Proclamare il proprio amore per gli operai può riuscire un comodo alibi per chi non ama nessun operaio, o nessun uomo”, dice nell’ultimo punto del Piccolo Manifesto.

Morante scrisse questi testi in un periodo di profondi cambiamenti sociopolitici, tra il Sessantotto e l’inizio degli Anni di Piombo. Nell’ambito di una polarizzazione crescente e diffusa, un pensiero anarchico come il suo – che appoggiava la ribellione giovanile solo finché non si istituzionalizzò – non poté che destare reazioni che andavano dal sospetto al dibattito più acceso: Morante disse a Fofi che la sua operazione era “fascista”. Col senno di poi, le ha dato ragione: “quei principi che noi trascuravamo […] furono per il movimento colpevoli e mortali” racconta nel commento al Piccolo Manifesto.

Il suo pensiero è, a più di cinquant’anni di distanza, ancora difficile da elaborare e non privo di (apparenti) contraddizioni: l’uomo non ha ancora smesso di amare il Potere; i Felici Pochi continuano ad essere schiacciati dalle armi dei vari Trump, Bolsonaro e Salvini; è sempre più facile essere un I.M., perché il comando e la forza appaiono, in periodi di crisi come questo, delle risorse. Morante ci chiede una rivoluzione permanente, un’organizzazione perfettamente orizzontale. Troppo da chiedere a un essere umano nel 2021? Difficile dirlo (e affermarlo con certezza sarebbe solo un altro abuso di Potere). Quel che invece è sicuro è il fragore che scoppia leggendo la sua filosofia: la più utopica e pura di tutte.

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