Salvatore La Porta – già autore di Less is more e altri testi con la Villaggio Maori Edizioni – torna a pubblicare con Il Saggiatore Elogio della rabbia, un manifesto dove in poco meno di duecento pagine difende il sentimento più stigmatizzato degli ultimi anni: la rabbia. Ma non una rabbia che diventa cieca e ossessionata dal controllo, bensì un sentimento capace di trasmutarsi in forza motrice propositiva contro le ingiustizie e le iniquità della nostra contemporaneità. Nel suo testo affronta con spiccata intelligenza le ragioni che lo hanno portato a dedicarsi a questo sentimento inevitabile nello spettro delle emozioni a cui possiamo accedere – e lo fa parlando di controllo, di attualità, dell’incapacità di avviare un contraddittorio e del diritto sacrosanto di giudicare gli altri e le loro idee.
Lo abbiamo intervistato per esplorare meglio questi temi.
Com’è nata la tua idea di scrivere un libro sulla rabbia?
Ho sempre considerato la rabbia un sentimento nobile e sincero, il vero discrimine tra civiltà e barbarie – ma anche uno strumento fondamentale per la nostra vita privata, capace di eliminare le ipocrisie che spesso incrostano la nostra esistenza, ristabilire equilibrio e giustizia. Non mi è mai piaciuta l’idea che la rabbia vada sfogata o controllata. È un sentimento da coltivare ed utilizzare. Negli ultimi anni, però, elogiare la rabbia è diventato sempre più difficile: i sovranismi, il populismo, i nuovi fascismi hanno ammalato questo sentimento, rendendolo rancore, associandolo a odio e irrazionalità. Ho avuto bisogno di spiegarmi meglio, di marcare delle differenze, e così è nato il libro.
Nel tuo libro dici “ci ripetiamo che nessuno ha il diritto di giudicare le nostre idee, e invece tutti hanno il dovere di farlo, perché le idee sono un patrimonio collettivo” e poco dopo “abbiamo cominciato a vivere in un mondo senza contraddittorio, e non credo sia mai esistita una cosa del genere nella storia dell’umanità”. Spingi quindi al confronto, ma credi che a oggi i social network siano un territorio sicuro dopo poterlo avviare? A volte non è preferibile sottrarsi al clima di tensione che si respira in certi post?
Il problema dei social network è che sono costruiti in maniera da sembrare “il naturale flusso delle cose”: quando apriamo la nostra bacheca su FB vediamo scorrere sullo schermo una sequenza indeterminata di informazioni, notizie, pareri. Leggiamo articoli, ascoltiamo le reazioni dei nostri amici e le reazioni dei nostri amici alle loro reazioni. Sembra un mondo naturale e privo di filtri, ed è facile credere che sia il mondo così com’è. Invece è una selezione ben precisa, basata su algoritmi il cui scopo principale è circondarci di persone e idee simili a noi. È una visione della società straordinariamente parziale e affermativa, la tomba del pensiero critico, e quando il pensiero critico muore il risultato è il fanatismo. Si creano bolle d’opinione incompatibili che, quando entrano in contatto per via di un post trasversale (perché di un personaggio pubblico, o di una testata nazionale), esplodono in furia e odio. Finché gli algoritmi saranno proprietà privata e occultata delle multinazionali, sarà difficile confrontarsi sui social network. Per fortuna esistono – esisterebbero? – altri mezzi.
Tu parli di rabbia contrapposta al rancore e la furia, cosa rende la rabbia diversa da quest’ultima?
Il rancore e la furia sono degenerazioni della rabbia, prodotte dal nostro legame con le parti del mondo che amiamo: quando le persone, gli oggetti e le idee su cui abbiamo edificato la nostra vita deformano il nostro senso di giustizia, la rabbia perde la sua capacità di essere imparziale. Diventa un cane da guardia che abbaia sulla soglia del nostro cancello, aggredisce chi minaccia la nostra famiglia, la nostra patria, le nostre idee. Dovrebbe essere altrimenti: la rabbia dovrebbe essere rivolta contro chiunque compia un’ingiustizia, anche se quella persona, quell’idea o quella patria sono parti importanti della nostra vita.
Nel tuo libro affronti anche il tema dell’ossessione di controllo sugli altri che oggi ha il suo migliore amico nel cellulare e nella possibilità di accedere alle app di messaggistica e i social network. Quanto l’ossessione di controllo può essere figlia di una società che spinge verso l’individualismo e ha smesso di nutrire il senso di comunità?
Se ci pensi, questa domanda è paradossale: è dal 2008 che FB ci ripete di essere nato per tenere in contatto le persone, ed è certo che prima dell’apertura di questo social network avevo perso di vista moltissima gente. Vecchi compagni di classe, parenti, amicizie di un’estate: è stata una vera e propria rivoluzione digitare per la prima volta il loro nome sulla barra di ricerca e trovarmeli improvvisamente accanto; le foto, gli umori, il lavoro che svolgono, i figli che ignoravo avessero. Eppure undici anni dopo diamo per assodato che questa tecnologia abbia sviluppato nelle persone un ego da selfie, la necessità di aver sempre ragione e di affermarla in maniera sprezzante, il senso di inutilità di un’immagine che non sia pubblicata, di un’esperienza che non sia condivisa in rete. Quel che ci è stato venduto come una tecnologia utile a creare e rafforzare la comunità ci ha costretti ad un continuo esser presente l’uno accanto all’altro: abbiamo addosso gli occhi di chiunque e teniamo i nostri ben fissi sugli altri. Sembra una buona definizione di carcere.
“Quando amate, ricordate di essere giusti”. Cosa vuol dire per te amare da giusti?
Significa non sacrificare il proprio senso di giustizia per amore degli altri, dei nostri oggetti, o delle nostre idee. Come dicevo prima, se qualcuno che amiamo commette un’ingiustizia dobbiamo avere il coraggio di provare rabbia nei suoi confronti, di difendere dalle sue azioni chi è stato offeso. Se lasciamo che l’amore deformi la nostra rabbia creeremo una società di clan, di branchi. Di “famiglie” nel senso più mafioso del termine.
Nel tuo libro inviti anche a non considerare chi commenti omicidi efferati in nome di una fede un “mostro”, ma anzi espressioni quasi “naturali” del clima in cui viviamo. Qual è il percorso che secondo te conduce una persona che altrimenti avremmo riconosciuto come tranquilla a “esplodere” in questo modo?
Questo è un punto complesso, difficile da trattare in un’intervista. Non intendo giustificare un omicida o l’autore di una strage: ma credo che anche la sua rabbia nasca dal senso di giustizia. Ma se questo sentimento non viene insegnato e coltivato, alimentato con la razionalità e la cultura, degenera, marcisce e alla fine esplode. Mi viene sempre in mente l’esempio di Raskolnikov, in Delitto e Castigo: quando uccide la vecchia usuraia lo fa spinto da un fortissimo senso di giustizia. È soltanto in seguito che si rende conto di quanto fosse distorta e deficitaria la sua visione del mondo, e di che delitto l’ha portato a macchiarsi. L’isolamento, la mancanza di cultura e informazioni ci portano a colpire i più deboli, mettono la nostra rabbia al servizio dei potenti. Tutti i personaggi che racconto nel libro sono straordinariamente soli e ignoranti.
Anche io, come te, sono una grande sostenitrice della rabbia e difendo in qualche modo l’appellativo che mi viene spesso affibbiato di “femminista incazzata”. Quale credi sia il modo migliore per convivere e coltivare al meglio la propria rabbia?
È fondamentale la massima di Popper: “Ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria né il problema che si intendeva risolvere.” Se la tua rabbia ti sembra sacrosanta, allora devi chiederti se non stai tralasciando qualcosa. È difficile capire quando la nostra visione del mondo è corretta e quando, invece, è soltanto deformata dall’amore per ciò che abbiamo vissuto e portato con noi durante gli anni. Conosco un unico criterio per capire se la nostra rabbia è giusta; è piuttosto semplice, ma mi pare solido: se è diretta contro i più deboli allora stiamo sbagliando qualcosa. È una questione logica: per definizione il debole non ha la potenza per commettere un’ingiustizia. Altrimenti sarebbe più forte di chi la subisce, e non potrebbe essere detto “debole”. I poveri cristi non sono nelle condizioni di commettere ingiustizia.
Nel tuo libro porti l’esempio di Malcom X e il modo in cui lui rispondeva al razzismo dei bianchi contro i neri. Anche io spesso mi ritrovo a ragionare sul tono da utilizzare in caso di soprusi e non sono affatto convinta che un tono conciliante sia il più produttivo. Tu cosa ne pensi?
Non credo che la rabbia debba essere disordinata o fuori controllo. Preferisco una rabbia razionale e decisa. È come nelle arti marziali: l’energia dev’essere incanalata nella maniera più utile, non va sprecata e non deve indugiare nella crudeltà. E sopratutto, una volta riparato un torto, bisogna dimenticare il volto del nemico. La vendetta e il rancore sono degenerazioni.
Racconti positivamente anche dell’esperienza del Rojava e di una tua amica lì volontaria. Ce ne parli un po’ anche qui? Cosa porta realtà di questo tipo a essere così ostacolate?
I curdi, come i palestinesi, sono un popolo privo di stato e di riconoscimento. Per questo sono deboli. Direi che una delle leggi che regolano l’umanità, da sempre, è che se qualcuno è debole, prima o poi troverà il suo aguzzino. È piuttosto sconfortante, in effetti. E non è affatto vero che a tutti, prima o poi, tocca il proprio turno di debolezza, povertà ed emarginazione: gli ultimi scivolano sempre più in basso, i primi ampliano il dominio. L’unica cosa che può mitigare questo stato di cose è la rabbia: quando andiamo a combattere al fianco di popoli stranieri, che con noi non hanno alcun legame affettivo, soltanto perché hanno subito un torto, allora abbiamo l’opportunità di ristabilire l’equilibrio. Ma se la rabbia degenera, se perde il suo ruolo, non potrà esserci alcun argine alla prepotenza.