Per una persona che ha sempre vissuto e riflettuto la propria vita attraverso la letteratura, l’autofiction romanzesca può aprire un varco nell’autoanalisi e nella riscoperta di sé. È forse questo uno dei maggiori propositi della scrittura di Elif Batuman, scrittrice statunitense di origini turche, finalista al Premio Pulitzer nel 2018 con il suo secondo romanzo, L’idiota, oltre che al Women’s Prize for Fiction, e al Premio Gregor von Rezzori 2019.
Batuman ha studiato letteratura russa negli anni Novanta ad Harvard, per poi proseguire un dottorato di ricerca a Stanford. Dopo il discreto successo nel 2005 di un breve racconto pubblicato sulla rivista N+1, Babel in California, Batuman ha completato il suo primo romanzo, The possessed, con un chiaro richiamo ai Demoni di Fedor Dostoevskij. L’abitudine di prendere in prestito i titoli dai giganti della letteratura e del pensiero filosofico degli scorsi secoli non è andata persa nel corso degli anni, tanto da aver intitolato il romanzo che l’ha fatta conoscere al pubblico internazionale The idiot (in italiano L’idiota, edito da Einaudi), con un evidente omaggio al tanto stimato autore russo.
Batuman si può inserire nell’autofiction, quella in cui il protagonista è la stessa persona che scrive (oppure un suo alter ego), ma allo stesso momento i suoi romanzi hanno tratti di memoir diaristici oppure di biografie. Sono questo e molto altro L’idiota e Aut-Aut, i primi due romanzi delle avventure della giovane universitaria di Harvard Selin Karadag, una protagonista brillante, in continuo dialogo con la letteratura e il linguaggio che tenta di scoprire il mondo. E lo fa in un modo tutto suo, originalissimo, intriso di ironia, sconcerto, caparbietà, arguzia, di una metodica ricerca della verità che la porterà a scontrarsi con una realtà che non è sempre facile da accettare, specie se si è giovani.
Il primo è stato scritto inizialmente verso la fine degli anni Novanta-inizio Duemila, quando Batuman aveva ventitré anni. La storia è stata ripresa in un secondo momento, dopo il successo del suo primo romanzo I posseduti: nel farlo la scrittrice si è rifatta a scritti diaristici risalenti agli anni del college. Più recente rispetto a noi – e più distante rispetto al primo volume delle avventure di Selin – è invece Aut-Aut, uscito negli Stati Uniti nel 2022 e pubblicato in Italia da Einaudi qualche mese fa (trad. Federica Aceto).
Il sequel, sebbene ripercorra il medesimo impianto narrativo de L’idiota, sembra dilatare lo spazio memorialistico e riflessivo a discapito di quello degli eventi. Aut-Aut sembra apparire come un’opera di transizione, incentrato sulla formazione estetica di Selin, in modo da preparare la strada a un terzo libro. Inoltre, sebbene lo stile di Batuman sia riconoscibile e ben presente anche in questo testo, si riesce a percepire la distanza quasi ventennale che intercorre tra i due lavori.
“Elif Batuman ha letto Italo Calvino?”
È una domanda che mi sono fatta diverse volte durante la lettura de L’idiota e di Aut-Aut, chiedendomi se Selin avrebbe scorto una sorta di panacea dalle avventure del visconte Merardo di Terralba, oppure se si sarebbe rispecchiata nella frase “A volte uno si sente soltanto incompleto ed è soltanto giovane”.
Perché è proprio così che si sente Selin Karadag, universitaria alle prime armi appena entrata alla prestigiosa e scintillante università di Harvard: la protagonista appartiene a una famiglia di emigrati turchi e frequenta la facoltà di Lettere. Fin dal suo arrivo da matricola, dovrà farsi largo e sgomitare per trovare la propria strada tra tanti talenti ed enfant prodige che popolano il mondo accademico.
Selin, approdata ad Harvard nell’autunno del 1995, guida il lettore in un microcosmo universitario particolarissimo, ricco di corsi creativi al limite dell’inutilità, puntellato da compagne di stanza con abitudine bizzarre, dai corridoi stretti lungo cui farsi spazio e sgomitare tra i tanti brillanti talenti che pullulano l’accademia del Massachusetts, dalla sala mensa in cui incontrarsi con gli amici per avere un po’ di compagnia. Ci sono i testi di linguistica, di semiotica, di matematica e tanti romanzi russi. C’è l’aggregazione sociale, così come le amicizie che nascono all’università, ma anche tanta, molta solitudine.
“E ogni sera c’era una qualche grossa riunione in cui, seduta per terra, ti sentivi spiegare che al momento eri un pesciolino in mezzo al mare, e venivi incoraggiata a vedere questa circostanza come una sfida esaltante invece che come una fonte di ansia. Io cercavo di non dare troppo peso alla storia del pesce, ma dopo un po’ cominciò a deprimermi comunque. Era difficile mantenere il buonumore quando continuavano a dirti che eri un pesciolino in mezzo al mare”.
Ed è da questo senso di spaesamento generale che la giovane studentessa, inerme dinanzi a un mondo di cui non comprende le regole e non riesce ad ambientarsi, si rifugia dapprima nella letteratura e poi nella linguistica, materia di cui si appassiona. Questi sono i due pilastri attraverso cui si relaziona con il mondo e con gli altri, specie con il misterioso Ivan, matematico ungherese di qualche anno più grande ed esperto di lei. Con l’affascinante ragazzo intraprende una lunga ed estenuante relazione epistolare, in un periodo come quello degli anni Novanta in cui non tutti possedevano un indirizzo di posta elettronica; pertanto, in questa dinamica si insinua prepotentemente la tecnologia, che ha il potere di avvicinarli e, allo stesso tempo, di separarli.
Nell’imbastire questo rapporto, oltre ad affidarsi a un alleato tanto labile quanto aleatorio come la tecnologia, Selin si affida al linguaggio e alle sue regole. Ed è proprio tramite il linguaggio che i due ragazzi sembrano legare, avendo trovato un terreno comune: le pagine metalinguistiche, ricche di riflessioni non solo sulla materia, ma anche sui legami tra il turco e l’ungherese, e di riflesso tra Selin e Ivan, sono la parte più godibile dell’intero romanzo. L’autrice si serve di loro non per puro esibizionismo di erudizione, ma per stabilire un rapporto tra due personaggi apparentemente diversi che cercano di comunicare in maniera efficace: dal momento che i momenti che trascorrono insieme sono dominati – specialmente da parte di Selin e per colpa di Selin – dall’imbarazzo e dal senso di inadeguatezza, rifugiarsi in qualcosa di astratto e di estraneo a loro, come il linguaggio, componibile e formulabile a loro piacimento, può sembrare una soluzione vincente.
Inoltre, Selin è convinta di potersi affidare a una lente razionale e puntuale come la scienza del linguaggio per interpretare il mondo che la circonda e le relazioni che stringe all’interno del campus, così come con la letteratura. Un altro aspetto affascinante è la modalità con cui la giovane eroina si rapporta alla tradizione letteraria: anziché cercare di comprendere i libri in maniera oggettiva, Selin lascia che siano essi stessi a far luce su un suo determinato stato o su un periodo della vita che sta attraversando. La studentessa imbastisce un vero e proprio rapporto riflettivo e riflettente con la questa materia, cui ricorre ogni volta che non riesce a comprendere la realtà che la circonda. E quando non succede, specie se si è giovani, alle prime armi con tutte – specie con l’amore – e non si ha la minima idea della direzione far prendere alla propria vita?
Questo è, forse, l’aspetto più potente e affascinante de L’idiota, insieme al tema della tecnologia, al cui potere e relativi aspetti negativi i ragazzi degli anni Novanta non erano certo preparati, come il continuare a chiedersi se dall’altra parte dello schermo ci sia davvero la persona che pensiamo ci sia o se sia tutto frutto di un’invenzione da parte di qualcuno.
Le avventure estetiche di Selin in Aut-Aut
Queste dinamiche vengono riprese e amplificate nel sequel Aut-Aut, pubblicato in Italia la scorsa primavera. Come il suo predecessore questa seconda puntata delle avventure della giovane universitaria turco-statunitense si rifà a un grande classico: questa volta è una delle opere del filosofo Søren Kierkegaard, che la ragazza acquista in una libreria prima dell’inizio delle lezioni, insieme a Nadja di André Breton. Verso di loro si instaura subito un rapporto riflettente, infatti la protagonista è sicura che potranno essere i fari che la guideranno per il resto dell’anno alla scoperta di sé e del mondo.
Tornata dall’esperienza di volontariato in un villaggio sperduto dell’Ungheria, Selin inizia il secondo anno di studi ad Harward, ma prima di tutto deve affrontare le domande insistenti dell’amica Svetlana sul suo rapporto con Ivan. Ed è proprio intorno a Ivan, o meglio, alla sua assenza, cui gira intorno se non tutto il libro, almeno la prima parte: ora che si è laureato e studia a Berkeley, la giovane deve fare i conti con la sua sparizione, il fraintendimento dei suoi intenti e con molte altre verità che verranno a galla. Sarà sconvolta a tal punto da mettere in discussione ogni particolare della sua relazione con Ivan e delle parole che si sono scambiati – o, meglio, scritti via e-mail; ma, d’altronde, non è forse il prezzo da pagare per aver tentato di costruire una relazione, un rapporto, basato non sulle regole del mondo empirico ma su altre, della parola, della linguistica e della matematica? Come si affronta un lutto emotivo di questo genere se non si hanno gli strumenti per elaborare quanto successo? Quando si smette di controllare ossessivamente gli accessi all’indirizzo mail di Stanford di Ivan? Ma quel che è successo era vero?
Costruito su una struttura molto simile a quella de L’idiota, in Aut-Aut Selin per tutto il corso dell’anno accademico approfondisce lo studio della lingua russa e della letteratura e, all’insegna di una vita estetica, (a differenza dell’amica Svetlana, che propende più per una vita etica) inizia a esplorare il mondo del sesso, senza mai abbandonare la sua consueta stranezza e ironia, al punto che alcune scene risultano al limite dell’awkward e dell’imbarazzante. L’intero campo amoroso assume per Selin il carattere dell’urgenza, al punto da fagocitare una grossa fetta del romanzo: le aule scolastiche sbiadiscono, così come si accendono le luci sulle feste universitarie – cui prende parte con coraggio e naturalezza – e quelle delle camere da letto. L’esplorazione conoscitiva da parte di Selin nei riguardi del mondo erotico ha un non so che di scientifico, razionale e al tempo stesso urgente e romanzesco.
“Il fatto che non avessi ‘fatto’ sesso poteva spiegare perché mi sembrava di non aver imparato nulla… perché tutto ciò che avevo imparato mi sembrava in qualche modo incompleto e fuori tema? Era il sesso – il ‘fare’ sesso – che mi avrebbe restituito il senso della vita come una storia?”
La sfera relazionale-amorosa – come già anticipato – è il nodo centrale di Aut-Aut al punto da sacrificare altri elementi che ne L’idiota avevano uno spazio più ampio nel romanzo, a partire dalle lezioni dell’università (specie dall’inverno in poi) e, soprattutto, dalle relazioni con gli altri personaggi che orbitano intorno a Selin, più numerosi rispetto alla prima opera, ma sicuramente meno approfonditi. Il rapporto con l’amica bulgara, Svetlana, si esaurisce nella differenza di approccio alla vita, ispirata chiaramente al filosofo Soren Kierkegaard: Svetlana predilige una metodologia etica, mentre Selin opta per la estetica.
Il punto più critico di Aut-Aut, però, ha a che fare con la prevalente assenza di Ivan: la protagonista si rapporta più con il suo fantasma e con l’Ivan che aveva idealizzato più che con quello reale. La scelta narrativa di Elif Batuman è sì interessante perché, utilizzando una narrazione in prima persona e una focalizzazione interna, il lettore non conosce Ivan in maniera oggettiva, esterna, bensì attraverso il filtro di Selin. Questa relazione, insieme all’approfondimento da parte dei lettori del misterioso matematico ungherese, si complica ancora di più dal momento che è nata attraverso la tecnologia, uno strumento ancora non appannaggio di tutti negli anni Novanta e, per questo, pericoloso.
Pertanto, l’assenza di Ivan offre da una parte a Selin di riflettere su quanto accaduto l’anno precedente e di cercare di comprendere il vero Ivan, dall’altra è un’opportunità per Batuman di instillare riflessioni sul ruolo e sull’impatto che la tecnologia può avere sulle nostre vite. Un tema sì all’ordine del giorno – al punto che leggere di due ragazzi che si scrivono e-mail e non sui social network a un lettore del 2024 può sembra qualcosa di preistorico – ma inserito in un contesto temporale unico e a sé stante, come quello della seconda metà degli anni Novanta e in un’università degli Stati Uniti, in cui internet era ancora qualcosa di misterioso, affascinante e pericoloso.
Tornando ai personaggi, che in Aut-Aut sono ridotti a comparse, in prima battuta il lettore è portato a sospettare che nel rapporto con Juho, coetaneo islandese, si instauri un rapporto parallelo a quello con Ivan: nelle scene insieme i due si imbarcano in conversazioni metalinguistiche sulla singolarità dell’islandese e sulle similitudini con l’ungherese e il turco. Ma la loro relazione non ha il medesimo sviluppo del rapporto con Ivan e rimane un anacoluto narrativo, come se Batuman avesse intenzione di dare spazio ad altro.
Un altro fattore che può stonare è la decisione della scrittrice di riproporre la stessa struttura del libro primo, scandita dai dall’autunno alla primavera inoltrata in cui l’ambientazione principale è il campus universitario e da quelli estivi, caratterizzati dai viaggi. Lo spazio concesso all’estate è forse eccessivo, specie se la costruzione degli eventi è dispersiva e frammentaria dell’intero romanzo: l’impostazione diaristica che può andare bene per il racconto delle giornate al college risulta piuttosto debole quando si tratta del racconto dei propri giorni di vacanze. La scrittura si infiacchisce e l’opera perde di slancio.
Alla fine dell’anno da matricola trascorre qualche giorno a Parigi con i suoi compagni, per poi dirigersi verso l’Ungheria, dove farà volontariato in un villaggio non lontano da casa di Ivan; l’estate del seconda anno, invece, è principalmente occupata dal viaggio in Turchia per lavorare alla guida di Avventure nel mondo, caratterizzata sì da un tête-à-tête con la sua terra di origine – occasione che Batuman coglie per tematizzare in maniera più approfondita le origine turche di Selin – ma anche e soprattutto dall’esplorazione fisica dell’eros e dalla decostruzione dell’amore romantico. Il libro si conclude con il suo arrivo in Russia e, dalle pagine finali, si fa intendere che ci saranno nuovi sviluppi e che le avventure della giovane studentessa non sono finite. Anzi, sono appena iniziate.