Me ne stavo in questi giorni inesorabili d’estate, intenta a rimuginare continuamente su di un fatto. Un fatto che risultava darmi una noia tutta particolare, come certi frontini imposti alle giovani frangie meridionali negli anni novanta. Ebbene, il fatto consisteva in una fiacca ridda monocorde su quanto tuttora accade nella politica interna del Venezuela. Ovvero, la maniera horribilis tutta contemporanea, da parte della stragrande maggioranza dei media occidentali, con cui si offre alla popolazione di mezzo mondo tutto un frasario emergenziale, quasi terroristico, con cui assemblare giochi logico-linguistici di pronto soccorso verso il suprematismo (ciao Donald) di una certa specifica, unilaterale, forma di democrazia.Senza con ciò voler affatto minimizzare la drammatica crisi interna venezuelana, ma anzi per volerne meglio capire le fondamenta.
Mentre queste lagne insistenti tormentavano i miei pensieri, ecco presentarsi d’improvviso una soluzione creativa: ho pensato di liberarmi di questo misfatto inventando anche io un gioco. Un gioco in grado di restituire una forma armonica tale da riappacificarmi con la storia e le identità di uno dei paesi più controversi del grande Sud del mondo, così da meglio ritornare sulle sue vicissitudini politiche ed economiche. Il gioco è stato sostanzialmente semplice, per deviazione melomane personale, non ho trovato migliore strategia che quella di interrogare la musica di quei luoghi.
Che musica fanno i venezuelani? Che cosa ascoltano oggi? Esiste il rock n’ roll in Venezuela?
Cominciamo dal principio, più o meno.
Prima dell’arrivo di Colombo e la conseguente massiccia colonizzazione ispanica a partire dagli anni venti del Cinquecento, le popolazioni indigene venezuelane erano composte da due principali gruppi etnici, gli Aruachi e i Caribe. Costoro vivevano prevalentemente di caccia e agricoltura in piccoli villaggi sparsi lungo le rive del fiume Orinoco. Proprio qui nei Llaneros, le savane a nord del bacino del fiume, la regione dove avrebbero poi trovato posto le trivelle petrolifere, si comincia a diffondere a partire dal Settecento il termine joropo, ovvero “festa”, che stava a indicare un particolare insieme di danze e musiche, che ancora oggi rappresentano una delle espressioni più sentite della musica tradizionale venezuelana, con le sue radici nella musica creola a testimonianza della fusione non solo sonora, tra indigeni, africani ed europei nell’immaginario del popolo venezuelano. Tanto che nel 2014 lo joropo è stato dichiarato Patrimonio Culturale della Nazione.
Si tratta solitamente di un canto accompagnato da arpa, cuatro, bandola oriental, mandolino, chitarra e talvolta accordion, dove la melodia si costruisce su un tipico andamento percussivo e tagliente degli strumenti a corde a cui si aggiungono le maracas, come unico strumento a percussione. Tra i principali interpreti che hanno contribuito alla diffusione dello joropo ricordiamo Juan Vicente Torrealba, Ignacio Figueredo, Eneas Perdomo e Angel Custodio Loyola. C’è anche una particolare versione orchestrale dello joropo più famoso del Venezuela, Alma Llanera, una sorta di inno non ufficiale venezuelano, eseguita dall’Orchestra Giovanile del Venezuela Simòn Bolìvar e diretta da Gustavo Dudamel.
Per chi non lo conoscesse, Gustavo Dudamel – classe 1981 – è una giovane bandiera della musica classica venezuelana, formatosi come violinista grazie al progetto didattico musicale El Sistema, promosso da Josè Antonio Abreu. All’età di 23 anni vince il concorso per giovani direttori d’orchestra “Gustav Mahler” e oggi vanta nella sua carriera la direzione di numerose orchestre, tra cui l’Orchestra Nazionale del Venezuela, la Philharmonia Orchestra di Londra, e la Los Angeles Philharmonic. Qualcuno lo ricorderà anche per la direzione dell’ultimo concerto di Capodanno a Vienna, e una serie tv statunitense Mozart in the Jungle, il cui protagonista Rodrigo, è un eccentrico ed esotico direttore d’orchestra ispirato al giovane talento venezuelano.
La musica classica venezuelana, e oserei dire mondiale, deve moltissimo al coraggioso progetto di Abreu. Dal 1975 El Sistema permette da più di quarant’anni ai bambini di ogni ceto sociale l’accesso libero e gratuito ad un’alta formazione musicale, pubblica e gestita da un organismo statale, la Fundación del Estado para el Sistema Nacional de las Orquestas Juveniles e Infantiles de Venezuela, che con 180 nuclei operativi sul territorio venezuelano promuove 125 orchestre e cori giovanili, 30 orchestre sinfoniche, per un totale che conta più di 350.000 studenti. La cosa curiosa, che la dice tutta a mio avviso, è che la Fondazione non afferisce, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, al Ministero della Cultura, bensì a quello della Salute e della Famiglia: la musica è diventata per i giovani venezuelani una questione di welfare e un diritto costituzionale.
Perché questo aspetto è così importante? Perché il Venezuela è un paese estremamente giovane, l’età media si aggira intorno ai 25 anni, e perché la stragrande maggioranza dei bambini che accedono a El Sistema proviene dalle zone più povere del Venezuela e dai barrios di Caracas, i quartieri piramide composti da casotti di mattoncini rossi arroccati sulle montagne che circondano la città, dove vive la classe lavoratrice. Si è trattato di una vero e proprio riscatto intellettuale e culturale. La rottura della barriera elitaria ha permesso a molti giovani di trovare nella musica un linguaggio in grado non solo di cambiare la propria vita, ma letteralmente di salvarla. A Caracas c’è uno dei più alti tassi di omicidi al mondo, e non c’è dubbio alcuno che avere per le strade eserciti di ragazzini che invece di sniffare colla o maneggiare armi, brandiscono violini, è una gran bella rivoluzione.
Verso la metà degli anni duemila, in pieno periodo chavista, si sono formate anche delle orchestre penitenziarie in collaborazione con il Ministero degli Interni e della Giustizia. L’inclusione è il tratto distintivo dello spirito che anima El Sistema accogliendo ragazzi con diverse forme di handicap, dalla cecità all’autismo. Esiste persino uno specialissimo coro di mani bianche che danzano sulla musica attraverso la lingua dei segni. Non è un caso che il motto che riecheggia per le scuole de El Sistema sia “Tocar y luchar”, ovvero suonare e lottare, inciso sul retro di una piccola medaglia con un violino, tenuta al collo dai nastri gialli, rossi e blu della bandiera venezuelana, che ogni piccolo musicista indossa con orgoglio durante i concerti. Questo miracolo è possibile anche grazie al fatto che i giovani musicisti una volta entrati in un’orchestra percepiscono uno stipendio che permette loro di creare grazie alla musica un valore reale nell’economia familiare. La visione di Abreu funziona, e funziona anche perché è la sua figura a caricarsi di un furore quasi messianico – sembra facile quasi immaginarselo a dirigere qualche vecchia scuola filosofica della Magna Grecia – innamorando personalità di spicco della classica internazionale quali, Claudio Abbado, Simon Rattle, Placido Domingo.
Nel documentario Tocar y Luchar del 2004 diretto da Alberto Arvelo, si può ascoltare Abreu parlare dell’orchestra come il prototipo di una sorta di società ideale, dove ciascuno concorre ad un lavoro organico di concertazione e di dialogo costante con il gruppo, volto alla creazione attraverso la musica, di qualcosa in grado di rivoluzionare continuamente tanto chi l’ascolta quanto chi la esegue. La musica classica in Venezuela non ha nulla a che fare con l’intrattenimento, né con i ligi studi solipsistici e borghesi a cui il nostro retaggio culturale europeo è abituato a immaginare. I bambini sono costantemente ispirati dall’organismo comunitario dell’orchestra, ed è grazie a questa fiducia che accolgono l’errore come un’opportunità per migliorare il gruppo, senza ricorrere ad alcuna cultura della colpa e del giudizio individuale.
Capire questo, significa capire la caratteristica principale e la forza unica del popolo venezuelano, ovvero quella pasiòn liberadora di bolivariana memoria che storicamente gli ha consentito di emanciparsi dalle catene del colonialismo spagnolo, affermando la propria identità sovrana con la fierezza che ancora oggi esplode nei colori delle giubbe con la bandiera venezuelana indossate dai giovani musicisti. Un sentimento potente, che ha forgiato la forma costituzionale stessa dello Stato venezuelano. Con la costituzione bolivariana del 1999 infatti, il sistema venezuelano individua la separazione di ben cinque poteri: quello esecutivo, esercitato dal Presidente e dal governo; quello legislativo, esercitato dal Parlamento monocamerale, cioè l’Assemblea Nazionale; quello giudiziario, attraverso il Tribunale Supremo di Giustizia; il potere cittadino, attraverso il Consiglio della Repubblica, che adempie alla funzione di strumento di controllo popolare e pubblico degli atti istituzionali e amministrativi; e il potere elettorale, attraverso il Consiglio Nazionale Elettorale, che regola i processi elettorali con cui si pronuncia la volontà popolare. Questi ultimi due poteri assieme costituiscono quello che i venezuelani stessi definiscono il “potere del popolo”, ovvero il canale di espressione più autentica di quel sentimento originario di autodeterminazione a cui facevamo riferimento prima. Una forma di democrazia presidenziale abbastanza singolare quindi, a cui noi europei non siamo affatto abituati a pensare. Ma su questi argomenti tornerò più diffusamente nella seconda parte.
Ora parliamo di Rock n’roll (si, lo so che aspettavate un po’ di salsa e merengue, ma mi sa che dobbiate tenere a freno la piña colada che è in voi ancora per un po’).
Mentre il mondo anglofono faceva il bello e il cattivo tempo da Elvis ai Beatles, tra gli anni ‘50 e ‘60 anche in Venezuela il rock n’roll muoveva i suoi primi passi. Tra le prime band, Los Impalas, originari di Maracaibo, i quali sono stati anche la prima band sudamericana a travalicare i confini continentali spendendo gran parte della propria carriera in Spagna. Tra gli altri, Los Holidays, Los Darts, Los Supersonicos, tutte band che pur seguendo gli stilemi britannici adottarono sin da subito il canto in lingua spagnola. Dobbiamo invece ai Los Cuatro Monedas l’introduzione in Venezuela di dolcissimi ritmi giamaicani, reggae e ska.
In questo periodo Marcos Pérez Jiménez spodestando con un golpe militare il primo presidente eletto democraticamente, lo scrittore Romùlo Gallegos, per Acciòn Democratica (AD), il vecchio partito socialdemocratico di Betancourt, favorì una massiccia immigrazione dall’Europa, soprattutto italiana. Questo fenomeno determinò nel giro di un decennio una profonda trasformazione del tessuto economico, demografico e sociale.
Negli anni ‘70 e ‘80 si svilupparono anche movimenti prog rock, hard rock e heavy metal, tra gli artisti più influenti in questo campo c’è Paul Gillman, una figura nota in Venezuela e non solo, per il suo incondizionato supporto alla causa chavista. In questi ultimi mesi è stato anche protagonista di una polemica circa la sua espulsione dal cartellone del Rock en Parque, il festival rock gratuito più grande del continente che si tiene dal 1995 a Bogotà, in Colombia.
Pare che sui media locali Julio Correal, imprenditore nonché uno dei fondatori del festival, abbia imbastito una campagna denigratoria volta a scalzare l’artista venezuelano dalla line up. La ragione addotta da Correal riguarda la preoccupazione dovuta al fatto che l’aperto sostegno di Gillman all’“ordinamento chavista” avrebbe compromesso il corretto svolgimento della manifestazione, e trasformato l’evento in un palcoscenico politico. Eppure al Rock en Parque non sono mancate negli anni partecipazioni controverse, come quella della band punk hardcore spagnola KOP, il cui frontman fu condannato a cinque anni di reclusione per aver collaborato con l’ETA.
Dagli anni ‘60 fino al 1998 la vita politica del paese si distingue per un’alternanza bipartitica fra AD e il partito democristiano COPEI. Nel 1973 sotto Carlos Andres Perez, il Venezuela conobbe uno sviluppo economico dovuto all’ingresso di grandi capitali stranieri, soprattutto statunitensi, un periodo noto con il termine di “Venezuela Saudita”, per via dell’embargo arabo dei paesi dell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries) sul greggio, dovuto alla crisi aperta dalla Guerra del Kippur. La disoccupazione diminuì vertiginosamente e vennero nazionalizzate le industrie di alluminio, acciaio e petrolio, così nacque nel 1976 la Petroleos de Venezuela (PDVSA).
Ma fu un fuoco fatuo, gli anni ‘70 furono per tutta l’America Latina soprattutto un periodo ricco di tragiche tensioni economiche e politiche. La crisi cilena che culminerà col colpo di stato di Pinochet, non fu un episodio isolato, ben presto l’intero Sudamerica si trasformò in un’enorme dittatura militare conducendo da una parte, a una radicalizzazione della guerriglia socialista e comunista, e dall’altra alle atrocità patrocinate dagli States con l’Operazione Condor, promossa dalla CIA in appoggio delle dittature militari al fine di mantenere il controllo sull’intera regione, in cooperazione con i servizi segreti locali e gruppi a carattere squadrista, come la Tripla A argentina e la cilena Patria y Libertad. Il bilancio di questi anni che viene fuori dai cosiddetti “archivi del terrore” rinvenuti nel 1992 dal giudice José Augustín Fernández in una stazione di polizia della città paraguaiana di Asunciòn, racconta di un’ecatombe, circa 50.000 persone assassinate, 30.000 desaparecidos e oltre 400.000 persone detenute, e acclarò inoltre la partecipazione in questa operazione di repressione sanguinosa anche dei servizi venezuelani.
È dunque con la crisi petrolifera che si dà il la al montare dell’inflazione, legata fino alla fine degli anni ‘80 ad una sostanziale stagnazione della crescita economica, è quel fenomeno che va sotto il nome di stagflazione, e si verifica cioè quando un paese vive un periodo di stagnazione, ma ha bisogno di un prodotto primario, di cui non può fare a meno, importato da un altro paese. Un fenomeno sperimentato soprattutto negli States e nell’Inghilterra della Thatcher. Non stupisce quindi, in quest’ottica l’esigenza statunitense di controllare la regione del latinoamerica, soprattutto in quegli anni di debolezza internazionale dovuta al Watergate e alla sconfitta in Vietnam, che spingeranno poi l’Unione Sovietica a rompere i rapporti di equilibrio stabiliti dalla conferenza di Jalta e intervenire massicciamente in Afghanistan.
Oltre alle risorse petrolifere l’intervento statunitense in America Latina comincia a preoccuparsi di controllare un’altra grande risorsa economica, vale a dire il narcotraffico. Questo sarà evidente massimamente riguardo l’ingerenza della DEA e della CIA nelle vicende interne ai cartelli della coca in Colombia. Come dimostra una recente ricerca dell’Università delle Ande di Bogotà, il traffico di stupefacenti arricchisce certamente le reti criminali, ma anche il sistema bancario statunitense ed europeo. Lo studio mostra come alle nazioni produttrici resti circa un 2,6%, mentre il restante 97,4% viene distribuito tra malavita e finanza europea e statunitense. Perché? Soprattutto per la facilità di riciclaggio del denaro favorita negli States da leggi sul segreto bancario non presenti invece in territorio colombiano. Questo aspetto genera come effetto paradossale il fatto che, una volta giunto nei paesi consumatori, il denaro entra nel sistema in maniera protetta, mentre si concentrano le operazioni di controllo sui pesci piccoli, anziché sui grossi sistemi finanziari all’interno dei quali si muovono gli affari. Così il costo umano ed economico della guerra tra i narcos è pagato in toto dalla società sudamericana, mentre i profitti sono fatti altrove.
E intanto in Venezuela cosa ci dice la musica di questo bel trambusto?
Verso la metà degli anni ‘80 viene registrato il primo disco blues in lingua spagnola dai Pastel de Gente, con un pezzo come El Blues del Perdedor (per chi conosce un po’ di spagnolo è interessante soffermarsi sulle liriche) considerato una pietra miliare per l’evoluzione del genere in Venezuela. Mentre dalla scena punk underground tra il 1987 e 1989 emergeranno band come Sentimiento Muerto di ispirazione new wave e Desorden Pùblico, questi ultimi destinati ad una carriera trentennale a suon di ritmi caraibici e ska irriverente: “Con el tetero de petróleo, lo único que crece es su círculo vicioso”.
Questi sono anche gli anni del caracazo, un nome sotto cui vanno i disordini e le violenze verificatesi a Caracas e nelle zone limitrofe durante il secondo governo di Carlos Andrès Perèz. Dopo il 1983 il Venezuela cominciò a perdere lo slancio economico accumulato nei primi anni ‘70, per cui la crisi incipiente portò ad una serie di misure di austerità imposte al Venezuela dal Fondo monetario internazionale. Gli scontri con le forze di polizia metropolitana e l’esercito nazionale furono particolarmente brutali e portarono secondo le fonti ufficiali a circa 300 morti, altre fonti ci parlano invece di circa 3500 vittime. Il governo di Perèz fu più volte tacciato di corruzione, è così che nel 1992, Hugo Chavez fa la sua comparsa sul palcoscenico politico venezuelano, alla guida di un gruppo di ufficiali del Movimento Bolivariano tentando un colpo di stato, che fallì (“por ahora”). Sarà nel 1993 che Perèz venne infine destituito dalla Corte Suprema del Venezuela per peculato doloso e malversazione.
Gli anni ‘90 e gli anni Zero per il rock venezuelano significano soprattutto Caramelos de Cianuro e Los Amigos Invisibiles, attivissimi ancora oggi, questi ultimi si distinguono per gli arrangiamenti funky raffinati dal profumo seventies e le atmosfere B-movie. All’indomani di anni duri, in cui l’agenda economica e politica veniva dettata in sudamerica dagli interessi statunitensi, il plebiscito di Chavez nelle elezioni del 1998 era esattamente quello che il popolo del Venezuela stava aspettando. Nel 1999 tramite referendum, il Venezuela si dotava di una nuova costituzione dando vita alla Repùblica bolivariana de Venezuela: comincia il ventennio chavista.
La visione politica di Chavez si caratterizzava per un profondo anti-imperialismo e anti-liberismo, dando vita ad un progetto socialista ispirato alle figure di Gramsci, Simon Bolivar e Allende (“a differenza di Allende, noi siamo armati”) in anni in cui in Europa parlare di socialismo significava rivolgersi a un guscio di noce marcio. Il bolivarismo è il tratto distintivo della filosofia non solo di Chavez, ma è stato ereditato da tutti quei leader sudamericani che hanno fatto della “militarizzazione” della lotta politica e della guerriglia l’unica inevitabile strategia in grado di parlare a quella pasiòn liberadora originaria, al sentimento primordiale di appartenenza india, come una sorta di reazione nei secoli a quella ingenuità bellica degli indios travolti dall’esercito colonizzatore spagnolo, in un bagno di sangue.
Eppure Chavez ha fatto della macchina democratica e del “potere popolare” così riconosciuto dalla costituzione bolivariana del ‘99 un tratto distintivo del suo linguaggio politico, tant’è vero che il più improbabile degli ammiratori, ovvero Jimmy Carter nel 2012 sentenziò che “il processo elettorale in Venezuela è uno di migliori al mondo”. Celeberrime furono anche le maratone televisive in cui Chavez parlava di storia e costituzione, in una sorta di scolarizzazione popolare, la qual cosa non risultava affatto agevole considerando che i media venezuelani erano – e sono – controllati al 90% da privati, ascrivibili sostanzialmente al fronte della sua opposizione politica. Un’abitudine che pare aver ereditato anche Maduro con una trasmissione che si chiama “Los Domingos con Maduro”, e che ho scoperto casualmente in una diretta Instagram (ebbene si!) sul canale ufficiale del presidente.
Quindi, per ricordarlo in breve, quello che Chavez mise sul piatto fu una politica sociale in grado di combattere drasticamente l’analfabetismo, la disoccupazione, la povertà, e di garantire un’assistenza sanitaria pubblica efficace, sul modello cubano, che ridusse il tasso di mortalità infantile e allungò le aspettative di vita media dei venezuelani. Come fu possibile finanziare queste misure? Soprattutto grazie agli introiti petroliferi. A tal proposito nel 2002 si aprì una controversia tra il governo e la dirigenza di PDVSA, proprio per l’utilizzo di una parte delle plusvalenze petrolifere per finanziare i sussidi sociali, questo condusse al primo di molti scioperi orditi dalla dirigenza aziendale e di lì a poco al golpe contro Chavez, durato poco più di 48 ore e rovesciato da una imponente sollevazione popolare.
Naturalmente l’uso del petrolio come principale strumento di controllo sugli interessi economico- politici internazionali e di sviluppo interno del paese, aprì a tutta una serie di insanabili contraddizioni di cui lo stesso Chavez era perfettamente consapevole.
Eccoci giunti agli anni contemporanei che si caratterizzano per una ricchissima spinta propulsiva nella produzione “indie”, grazie anche ad internet e alle nuove tecnologie. Difficile nominare tutte le nuove band venezuelane, tra queste: TLX un pop rock malinconico, con la passione shoegaze per i sintetizzatori anni ‘80 (si, anche in Venezuela c’è questa mania); Monsalve y Los Forajidos dal sound volitivo, tra free-jazz, ritmi afro-caraibici e rock; Tomates Fritos che dicono di se stessi “somos una banda guitarrera, indie, que creemos muchísimo en la canción como elemento principal, rock en español y el pop rock”.
Sulla ribalta delle cronache degli ultimi tempi e in cima alle pop charts venezuelane c’è Nacho, dell’ex duo Chino y Nacho, una sorta di Luis Fonsi in salsa venezuelana, portavoce influente, per la sua esposizione mediatica (non a caso), delle istanze dell’opposizione, protagonista di infinite shit storm via twitter indirizzate al presidente Maduro, e convinto sostenitore del leader simbolo dell’opposizione, cioè Leopoldo Lòpez, attualmente in carcere per istigazione al terrorismo e alla violenza.
Lòpez è un personaggio più che centrale nella strategia che si muove dietro i fatti che hanno portato all’attuale crisi in Venezuela. Figlio di una ricca e potente famiglia venezuelana, da parte di madre il suo pedigree familiare ha espresso numerose cariche politiche nel corso degli anni, come limpida testimonianza di quella tradizione oligarchica propria del vecchio establishment politico-economico del paese. Si è formato come economista negli States, studiando al Kenyon College e alla Kennedy School of Government di Harvard, i quali istituti hanno goduto nel tempo di più di qualche legame con la CIA.
La madre, Antonieta Mendoza è stata vicepresidente del grande gruppo privato specializzato in telecomunicazioni Cisneros, che attraverso la più influente rete televisiva venezuelana Venevision, è stato il principale sostenitore del colpo di stato promosso per rovesciare Chavez nel 2002. Il padre è stato caporedattore presso il quotidiano El Nacional, il cui attuale direttore Miguel Henrique Otero, ha fondato il Movimento 2D, che ha sostenuto la coalizione di opposizione Mesa de Unidad Democratica (MUD) alle ultime elezioni. Lòpez padre è inoltre protagonista assieme al suo rampollo, di una indagine condotta dall’Interpol sul riciclaggio di una somma di circa 111 mila dollari, depositati su un conto svizzero e diretti a Singapore.
Nel 1996, tornato in Venezuela, Lòpez cominciò a lavorare in PDVSA, nello studio di José Toro Hardy, uno dei principali promotori della de-nazionalizazzione petrolifera. Nel 1998, grazie al sostegno della madre che ricopriva all’epoca un ruolo manageriale in PDVSA, riuscì ad ottenere una donazione di circa 60 milioni di bolìvares, destinata ad un’associazione civile che faceva capo direttamente al partito Primera Justicia, di cui Lòpez e Julio Borges furono fondatori. Mentre nello stesso anno Chavez vinceva le elezioni. Questa vicenda di conflitto d’interesse inoltre, interdì Lòpez dalla candidatura alle elezioni del 2008.
Dal 2000 fino al 2008 fu sindaco della municipalità di Chacao a Caracas, ed è da questa posizione che comincia la sua battaglia politica contro Chavez. Nel 2002 era in testa alla marcia dell’opposizione verso Palazzo Miraflores, che portò al golpe e alla detenzione di Chavez e del suo ministro dell’interno Ramòn Rodrìguez Chacìn, e orchestrò l’utilizzo della sua forza di polizia municipale per seminare caos nelle strade di Caracas. Continuò la sua strategia sostenendo nel 2004 le rivolte per le strade di Chacao, note come guarimbas, e gli scioperi di PDVSA.
Nel 2014, poco dopo la morte di Chavez e le elezioni vinte da Maduro, Lòpez interpreta ancora un ruolo sibillino nel continuo incitamento alla rivolta, scatenando focolai violenti in varie città del paese, soprattutto a Caracas, nei quartieri ricchi. Le proteste portarono a circa 43 morti e più di 800 feriti. Per queste vicende sconta una pena di 13 anni.
Dunque, abbandonata la via golpista dei primi Duemila – per la quale beneficiò di un’amnistia nel 2007 – Lòpez intuisce che la strategia comunicativa migliore per cavalcare l’onda di malessere generata dalla crisi economica, e di violenza che egli stesso aveva contribuito a generare, è quella di presentarsi come una sorta di paladino della non-violenza e del diritto umanitario. Una continua teatralizzazione mediatica costruita sulla pelle dei venezuelani che negli scontri degli ultimi anni hanno perso la vita, e a cui la maggior parte dell’opinione pubblica mondiale abbocca. Un’applicazione talmente puntuale della retorica “della libertà e della democrazia” americana, funzionale poi all’intervento militare, come la storia ci ha insegnato in Medioriente, che non può non insospettire.
Nel rimandarvi alla seconda parte, questa volta senza il beneficio della musica, vi lascio con un’ultima nota di colore: la polemica tra Luis Fonsi e Nicolàs Maduro. Pare che il presidente abbia usato lo scorso luglio la musica di Despacito, con un testo pensato ad hoc per ironizzare sulle mire cospirative dell’opposizione e invitare alla Costituente.
Ma Fonsi non ci sta, e grida all’ “espropriazione”…