Eh sì, volevo scrivere anche io de La Grande Bellezza di Sorrentino

Forse sarete stanchi, dovete aver trascorso grandi sbornie intellettuali intorno a La grande bellezza di Paolo Sorrentino; forse starete stremati, con la voglia di metter su un vecchio film di Fellini o Antonioni che vi brancola fin dentro la stomaco e batte sul cervello a colpi di dialoghi d’altri tempi. Vi capisco: ho provato tutto questo anche io insieme a voi nelle scorse settimane, e se sento ancora nominare (oppure semplicemente mi capita di leggere le parole) La grande bellezza mi prende una specie di nausea riproposta per il ventunesimo secolo: è stato detto tutto e il suo contrario. Ma mi è capitato di rivederlo e volevo scriverne. Lo so che non volete sentire anche quello che penso io in questa overdose di opinioni, ”ma lo voglio dire lo stesso”.

Inizia tutto da Roma. Chi si è trovato a passare un po’ di tempo in capitale sa quant’è infima questa città, bella e stronza, affogata di contraddizioni violente: a Piazza Venezia ti ci puoi incantare a fissare quel Palazzo, e tra le due scuole di pensiero italiane degli innamorati di Roma e dei grandi rinnegatori, io sto certamente con quelli che si incantano ogni maledetta volta (è una questione di luce, è colpa di quella luce!). Inizia tutto da Raffaella Carrà, dal trenino, da uno scrittore che ha smesso di scrivere, che non trova la vena creativa, che forse non ha semplicemente più voglia di raccontare (o lo trova inutile). Finisce tutto con la santa e i fenicotteri. Certi romanzi di David Foster Wallace finiscono peggio. Finisce tutto con quel cazzo di eterno dualismo tra il viveur e l’ascetico: chi ha ragione, chi ha torto, è una cosa che possiamo chiederci infinitamente e mai la scopriremo, mentre viviamo. Non ricordo chi ha detto che è strano continuare a vivere come se nessuno sapesse (sapesse sottintende un gran miscuglio di sentimenti in questo caso, perché è un pensiero da esistenzialista francese), eppure mandiamo avanti a memoria la quotidianità, inventando artifici, tenendoci compagnia, a volte addirittura tirando fuori dal cappello fantasie e storie, simpatie ed antipatie. La parabola di Jep Gambardella somiglia tanto a quella di qualcuno che sa, ma che cerca di dimenticare furiosamente. Immagino che per comprendere questa sensazione bisogna ritrovarsela addosso, anche semplicemente al mattino mentre si fa colazione (credo sia il cuore della nascita dell’umorismo umano, dello sdrammatizzare, del non prendere sul serio questa faccenda in cui siamo invischiati, e complici). Ma andiamo con più ordine.

Le citazioni di Fellini. Se anche fosse non farebbe male. So già che il cuore della protesta sta tutto in quel Sabrina Ferilli versus Claudia Cardinale, tuttavia per un attimo proverò a dimenticare quanto sono cambiati i tempi dal 1963, in che modo la televisione italiana ha influenzato il cinema italiano, in che modo gli attori hanno cambiato i propri stilemi (sto seriamente scrivendo la parola stilemi in un post su un blog?!pare di sì), anche grazie al grande spirito santo che è il pubblico. Ma Sabrina Ferilli interpreta semplicemente Sabrina Ferilli. Venditti è Venditti, Verdone è Verdone, e Jep Gambardella non scrive più perché non ha niente da dire. Se Guido Anselmi aveva trovato nella Cardinale la ragazza della fonte che lo fa rinascere a trovare l’ispiration!, Gambardella si gira intorno e non trova niente che valga la pena di raccontare: si è arreso. Per ritrovare senso deve tornare alle radici, alla realtà. Fanculo la Carrà. Siamo ubriachi da troppo tempo della Carrà: ci perseguita fin nel nazional-popolare di Sanremo, quel programma che continuiamo a vedere come dei piccoli stakanov alla tv mentre ci sfoghiamo con rabbia sulla notte degli Oscar, paladini della giustizia del cinema che ”tanto (gli oscar) non valgono niente”, però ”questo film meritava un oscar in più”, e poi ”quest’altro film non meritava un bel nulla”, e poi ancora e ancora, perché ci piace tanto il blablabla eterno.

E’ un film materialista. Non in senso di materialismo storico marxista (che io pure apprezzo, per esempio in Godard quando lo fa per bocca dei suoi attori, quando i suoi attori sono belli e stronzi, quando i suoi attori belli e stronzi ridono mentre lo fanno, o ballano canticchiando senza senso – che poi a questo punto inizierei una grande discussione su com’è diverso il cinema da un romanzo, perché ha tutto un altro linguaggio, ma poi cado nel pretenzioso, e preferisco usare questa parentesi per fumare una sigaretta), è materialista perché materialisti, occidentali, vuoti o finto-vuoti, perduti come possibilità perdute, sono i suoi protagonisti, o la raccolta di alcuni volti di personaggi, primo tra tutti Servillo nei panni di Gambardella. Ma è questa la verità, inutile continuare a bluffare: ci siamo perduti, e rincoglioniti tutti. Non possiamo semplicemente negarlo con una scrollata di spalle, questo film ci sta facendo vedere in faccia quello che proviamo a evitare di vedere: un terribile rincoglionimento globale che nascondiamo sotto il tappeto la mattina, prima di dimenticarcene a tarda sera.

Negli anni ’10 del ventunesimo non ci resta che tirare cocaina e iniettarci botulino per tornare giovani, con l’ispirazione venduta a un produttore in serie di pièces teatrali, film, programmi tv e libri da rivendere sul mercato. E ora che ho finito la sigaretta posso preoccuparmi di uscire dal complesso della parentesi e fare per metà quel discorso pretenzioso di cui sopra: il linguaggio del cinema è quello che va sentito. Inutile costruirci troppo sopra, con ricorsi e corsi storici, critiche sopraffine e strenue battaglie di difesa. Se una cosa la senti, ti piace. Altrimenti non ti piace. E’ così semplice che non riesco a capire tutto questo rumore di fondo, per un film. Tutta questa sottile enfasi nelle simpatie ed antipatie.

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APPENDICE: QUALCHE OPINIONE SPARSA

C’erano i nani, c’erano le ballerine, ma neppure un acrobata, un domatore da circo, solo Jep Gambardella che poi alla fine non era Gambardella, era Servillo come al solito. (Filippo Facci, Libero – La Grande Bruttezza)

Entrando in sala, si pensa di vedere un film su Roma, ma per mancanza di materiale si entra in un viaggio dentro certe ossessioni dell’autore, acquisito cittadino romano. Un viaggio certamente condotto da un grande regista quale Sorrentino è. Ma il risultato è questo. Meglio saperlo. (Alberto Alfredo Tristano, Linkiesta – La Grande Bellezza di Sorrentino è una boiata pazzesca)

Non mi aspettavo niente, ma una cosa mi balenava per la testa: eccetto Bernardo Bertolucci, non avevo sentito da nessuno parole profonde che mi accendessero una curiosità sul film. Solo banalità distaccate. Per quel poco che conosco Bertolucci non è un uomo che usa l’espressione, «è un film che ti resta dentro», a caso. (Roberto Cotroneo, Perchè La Grande Bellezza è un capolavoro)

Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. (Informare per resistere – Ecco come e perché La Grande Bellezza ha vinto l’Oscar)

Elisa e Ramona sono le figure di un passato come segreto, fantasmi di una possibilità prodigiosa di felicità compiutasi in un tempo attimale e irrecuperabile («E ora, chi si prende cura di te?»); sono la grande bellezza delle situazioni che per spreco di tempo non abbiamo vissuto pienamente, se non per un momento, e che non rivivremo più. (Daniela Brogi – Le parole e le cose)

Sulla pervasività della GB nella società italiana: c’è sempre un momento Grande Bellezza in certe cene a Roma: anche a una recentemente, da amica architetta, bella, di sinistra, un’ospite chiede con occhio espressionista: ma a te è piaciuta La Grande Bellezza, con sguardo tipo: si dice in giro che ti piacciano i bambini, confermi? (Michele Masneri – L’ultimo uomo)

Il movi­mento barocco sul vuoto dei nostri tempi (?) che Sor­ren­tino dispiega con enfasi di vir­tuo­si­smo, è cali­brato sullo stesso vuoto, e su una sorta di regi­stra­zione dell’esistente a fronte della quale non viene messa in atto alcuna ambi­guità. (Cristina Piccino – Il Manifesto)

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