La storia degli Eels e, in particolare, del frontman Mark Oliver Everett (Mr. E) sembra essere un atlante illustrato per sopravvivere a una vita assurdamente tragica grazie alla composizione di musica e testi. I dischi di Everett, infatti, sono sempre nati dal dolore che l’ha accompagnato in tutta la sua vita. Figlio dell’eminente fisico Hugh Everett III, che ha dato un contributo importante alla meccanica quantistica, troverà proprio suo padre morto quando ha solo 19 anni. Il funesto evento, ovviamente, lo segnerà nel profondo, come segnerà anche la sorella di Mark che si ritroverà ben presto in preda a gravi disturbi psichici e che, dopo la nascita degli Eels, si suiciderà. Durante il tour per far conoscere il secondo album in studio anche la madre di Mark morirà per colpa del cancro.
Una vita costellata da perdite dolorose in giovane età, proprio agli inizi della carriera musicale di Everett. Pugnalate che avrebbero demotivato anche la personalità più rocciosa. Mark non si abbatte, e non per rincorrere la fama ma perché per lui l’unico modo per rimanere in piedi quando il destino sembra volerti mettere in ginocchio è sempre stato uno solo: fare nuova musica. Fare musica per gridare al mondo la bellezza dell’essere freak come lui (Beautiful Freak) o per sopportare i drammi familiari che coincidevano con la pubblicazione o con il tour promozionale delle nuove uscite discografiche, in un gioco al contrappasso pesantissimo.
La carriera ventennale degli Eels rispecchia la vita di Everett che ha visto ruotare attorno a sé, durante le produzioni, dei musicisti spesso diversi, non dando mai una forma finita agli Eels ma in perenne mutazione. Il circuito della musica indipendente si è ben presto riconosciuto nella figura tormentata ma sprezzante di Everett. La sua forza e la musica che da quella forza è sgorgata vengono viste con ammirazione da una fan base sempre più vasta e non più formata solamente da freak.
Se l’album di debutto era una celebrazione del weirdo, Electro-Shock Blues segna il passaggio dell’eccentricità dal mondo dei testi a quello della composizione a tutto tondo. L’album rispondeva all’esigenza di reagire alla morte della sorella e Everett pensa di “confondere” e spiazzare l’ascoltatore dandogli una nuova chiave per affrontare il dolore: testi drammatici accompagnate da armonie scanzonate, sperimentazioni musicale e tanto lavoro concettuale. La quest cavalleresca dell’antidoto al male è diventato elemento fondamentale per la creazione musicale e per la comprensione di tutti i dischi degli Eels. Quando la band si sarà fatta conoscere, arriveranno le collaborazioni eccellenti, come Peter Buck dei R.E.M., John Parish (il chitarrista di PJ Harvey) e Tom Waits. Questi pilastri della musica dei nostri tempi contribuiranno a dare legittimità e onore allo sforzo artistico e catartico messo in moto da Everett.
A ben quattro anni dall’ultimo disco in studio, gli Eels escono con un nuovo lavoro dal titolo The Deconstruction e il titolo contiene la chiave di lettura dell’album che, più che mai nel caso degli Eels, sembra essere un vero e proprio concept album. Come ha affermato Mr. E:
“Il mondo sta impazzendo. Ma se cercate bene, c’è ancora tanta bellezza da trovare. A volte non devi neanche cercarla. Altre invece devi provare a renderla tua. E poi ci sono delle volte in cui devi strappare qualcosa a metà per trovare la bellezza all’interno”
Ed è proprio questo strappare a metà che definisce la decostruzione che l’album ci invita ad operare. Naturalmente, l’atto stesso dello strappare, del distruggere, del rompere contiene al suo interno un inevitabile dolore. L’azione di strappare richiede decisione, fermezza e un pizzico di sana cattiveria ma, allo stesso tempo, è qualcosa di necessario per uscire dal tunnel e ritrovare la bellezza.
Questo tema (o, per meglio dire, questo tema cantato dalla voce inconfondibile di Everett) costituisce il vero fil rouge del progetto degli Eels. Il tema diventa topos e viene raccontato in molte forme diverse in quasi tutte le tracce che compongono il disco. È necessario distruggere tutto per darci la possibilità di ripartire perché il bello è a un passo da noi, è dietro il muro della comfort zone, dei ricordi immobilizzanti, delle radici che non ci fanno muovere. Il male si nutre della nostra incapacità di cambiare il nostro stato:
“I tell you nothing changes ’til you start / to break it down, canta Mr. E nella title track. Pars destruens che apra alla pars costruens che può iniziare solo quando non ci sarà più nulla: “The reconstruction will begin / only when there’s nothing left”
Mr. E ci invita a riflettere sulla possibilità che ci è riservata di ripartire da zero, accettando il passato per quello che è stato, senza cercare di ritornarci per rivivere un tempo che non può più essere presente: “I can’t go back / but i can make today a memory to last”. Inutile farsi incatenare dal passato, non esclusivamente lì dimora il bello ma anche nel presente e, soprattutto, nel futuro. Basta volerlo.
Ciò che rende davvero interessanti i testi di The Deconstruction è il fatto che non vi sia ombra di cecità nei confronti dell’assurdità del mondo. Non vi è una negazione del dolore e un elogio della felicità. Mr. E ci consiglia, piuttosto, di immergerci in quel dolore per imparare a dominarlo, prendere coscienza dell’assurdo, averne la nausea ma avendo ben chiaro che la via d’uscita è lì per chi ha il coraggio di aprirla e chiudere dietro di essa tutto ciò che ci bloccava.
“Who knows the only things to count on / are life is quick and life is strange” ma di fronte a una vita così indecifrabile occorre ritornare a sé: “looking for me? / I’m a pink sunset”.
Come il pesce dell’aneddoto di David Foster Wallace domanda all’altro pesce, mentre nuotano assieme, cosa sia l’acqua, così gli Eels ci chiedono di riflettere, di porre la nostra situazione in prospettiva: “it’s not the weight you carry / It’s how you carry it”.
Il tema del bello è indissolubilmente legato a quello dell’amore che risulta essere protagonista nelle ballate che si alternano nel disco. L’amore da vivere giorno dopo giorno senza cedere al terrore del futuro. Perché, ci vuole dire Mr. E, vale la pena concentrarsi sull’immediato, godere di ciò che un rapporto ci sa dare indipendentemente da come questo andrà avanti o, eventualmente, finirà. In accordo con la filosofia di Charlie Kaufman, gli Eels cantano: “there’s poison in the hearts of cheerless men / who only want to see it come to an end”. Ma in chiusura, Everett ci dice che, per sfuggire al dolore, l’amore (assieme alla musica) può costituire un rifugio affidabile in cui rintanarsi ogni qual volta si sente di poter crollare sotto i colpi terribili della vita: “your heart’s been battered / your spirit’s broken / but there’s a place where your heart can still be open / in our cathedral”.
Dal punto di vista squisitamente musicale, l’album appare diviso in 3 capitoli separati l’uno dall’altro grazie a dei brevi intermezzi che segnano, idealmente, il gesto del voltare le pagine: The Quandary che viene ripresa in maniera più lunga in The Unanswearable e Coming Back. È interessante notare che l’ultimo intermezzo dà vita a un capitolo composto da un solo brano, In Our Cathedral, quasi a volerlo ergere a pezzo simbolico, e non solo di chiusura, dell’intero album.
The Deconstruction è composto da tracce stilisticamente simili ma con molte variazioni sul tema che fanno in modo che l’ascoltatore non si annoi durante l’ascolto. L’interessante contrapposizione musicale presente in alcune tracce che si manifesta nello scontro, ad esempio, dell’incedere pesante della sezione ritmica con una soave armonia composta da fiati e da fraseggi al violino (The Deconstruction) ci stimola e spinge a voler andare avanti e a sentire ancora le confessioni di Mr. E. Lo stesso effetto è creato dalla varietà di stili utilizzati che vanno dal rock in stile The Black Keys (You Are The Shining Light), al valzer con un intro degna dei titoli di coda di una pellicola di Hitchcock (Sweet Scorched Heat), fino ad arrivare alla breve ninna nanna di Archie Goodnight. L’alternarsi di suoni molto tenui come i flauti e violini che accompagnano le chitarre distorte definisce la natura armonica del progetto e rende il disco interessante.
L’originalità è minata, però, dalla struttura dei pezzi spesso troppo simile. Una prova di questo neo sul buon lavoro degli Eels è data dalla pausa musicale di qualche secondo che precede il refrain. Questa scelta costituisce sicuramente un must nel mondo musicale, in particolare quello rock, ma sembra che se ne sia abusato in The Deconstruction.
In generale, l’ultimo lavoro degli Eels è pregevole dal punto di vista dei testi e la musica angelica a predominanza di archi e flauti che creano lunghe code e interessanti dinamiche ben si adegua alle parole scritte da Mr. E. L’uso sapiente delle chitarre distorte e l’elettronica appena accennata creano davvero un disco che merita di essere ascoltato. Sebbene sembrino esserci due anime diverse all’interno del disco, che si riflettono nelle prime 9 tracce e nelle ultime 6, un po’ più deboli (fatta eccezione per la traccia in chiusura), le 15 tracce tengono bene botta e non stancano. Dal punto di vista tematico, il concept dell’album ha una forza intrinseca pregevole soprattutto se lo si inserisce nel contesto della vita del frontman. I drammi fanno assumere un significato diverso alle parole di Mr. E che non vengono prese neppure per un momento come frasi di circostanza o utilizzate per vendere il proprio cd. Ancora una volta Everett ha cercato di mettere tutto se stesso nella musica e noi ci troviamo ad ascoltare i dolori del giovane Mr. E, prima di accorgerci di essere noi stessi stesi su un lettino a cercare di fare nostri i consigli di distruzione che ci propongono gli Eels.
a cura di Gianmarco Giannelli