The Reconstruction: gli Eels e un fraintendimento lungo vent’anni

Eels Live - Acieloaperto, Cesena

Se — come dice il saggio — “mal comune, mezzo gaudio”, se mettersi con entusiasmo a compilare la lista delle sfighe degli altri in qualche modo compensa il tempo perso a rileggere quella delle vostre, se insomma la guerra tra poveri è lo sport che praticate — anche solo a livello amatoriale — con più assiduità nel weekend, allora rilassatevi e mettetevi comodi: c’è chi è stato molto peggio di voi e — contro ogni previsione — è riuscito a concludere qualcosa nella vita. Per esempio fondare una delle band più importanti del panorama indie-rock mondiale, tenerla a galla per più di vent’anni facendo uscire qualcosa come 17 dischi e non spararsi un colpo in testa anche se a quei tempi era una cosa che andava discretamente di moda. Mica poco. A dimostrazione di tutto ciò (soprattutto dell’ultimo dato di fatto) stasera suona a Cesena, unica data italiana. Forse sareste dovuti venire a presenziare, anche solo così, tipo gita allo zoo comunale, per vedere — nemmeno troppo di nascosto — l’effetto che fa e tirarvi su il morale una volta per tutte.

Sì, perché — fatevene una ragione — la vita di Mark Oliver Everett è stata più complicata della vostra. Anche della mia, ci mancherebbe. Oh, lo so: voi siete passati attraverso chili e chili di merda e, quando non ne siete usciti puliti e profumati, almeno siete comunque sopravvissuti per raccontarlo su Facebook, che lì l’odore mica si sente. Anche io, ci mancherebbe: ho speso un patrimonio in deodoranti e smacchiatori sentimentali. Ma in confronto alla storia di Mr. E — credetemi — tutte le nostre esistenze messe insieme sono state una piacevole passeggiata defaticante con vento a favore e buffet gratis all’arrivo.

«And, ladies and gentlemen, on vocals and rhythm guitar… Me! Please read everything about Me in My Book. You can find it at our merchandise booth… oh no, wait… Shit! I’m now receiving word that actually you can’t find it at our merchandise booth, then yes: I’m glad to announce that My Book is officially sold out! Oh no, wait… Shit! I’m now receiving word that you can still order it online. Who knows if it’s even true. Can someone just please check on Amazon for me? C’mon.»

Ok, se anche voi siete tra quelli che hanno cercato invano la sua autobiografia al banchino del merchandise, proviamo a riassumere il tutto in maniera schematica, riducendo un complicato percorso di disgrazie ai suoi soli momenti salienti e raccontando una tragedia per tappe — insomma, una roba che sta a metà tra gli appunti di una via crucis e il template di una presentazione powerpoint.

Il figlio (un po’ insicuro, timido e dall’aspetto piuttosto nerd a causa di un paio di occhiali — passati dalla classica inziale forma da pentapartito all’attuale design steampunk — che sarà costretto a indossare per sempre, dopo essere stato colpito da un laser durante un concerto degli Who) di un eminente fisico americano (Hugh Everett III, genio incompreso della meccanica quantistica — a suo tempo deriso negli ambienti accademici per la sua teoria dei molti mondi e poi finito, frustratissimo, a lavorare per l’esercito) perde prima il papà per un attacco di cuore (sarà proprio lui a trovarne il corpo senza vita), poi l’amata sorella depressa che si suicida e quindi la mamma a causa di un cancro ai polmoni. Per farla breve, all’alba dell’estate 2001, l’unico parente che gli è rimasto è una cara cugina, che però pensa bene di imbarcarsi come hostess, insieme al marito e collega, sul volo 77 di American Airlines. Sì, quello che l’11 Settembre si schianta sul Pentagono, subito dopo il casino delle torri gemelle — radendo al suolo, in mezzo al resto, (narra la leggenda, giusto per chiudere il cerchio prima che l’emorragia di sventure esondi definitivamente) proprio l’ex-ufficio del padre.

Lo so, sembra l’adattamento hipster di un incrocio tra la sceneggiatura di Lost e quella del Secondo, Tragico Fantozzi. Eppure — nonostante tutto — c’è ancora qualcuno che si chiede come mai le canzoni degli Eels suonino “così tristi”. Per carità, a livello teorico posso anche capirne la posizione: tecnicamente, anche se il plot della tua vita pare scritto dal fratello sadico di Paperoga, spesso, nella realtà, sventura chiama sventura e quindi perché mettere tutto questo impegno nel tentativo di esorcizzare quella che, potenzialmente, non è detto sia la situazione più disperata? Nel senso, dopotutto, potrebbe sempre andare peggio.

Potrebbe piovere.

Rischio scongiurato, per fortuna, qua in Romagna, dove — come promesso dal Centro Epson — si registra un weekend mite, cielo terso, poca afa e nessun accenno di precipitazioni fuori programma. In altri termini, un meteo favorevole tiene sotto controllo l’unica variabile che avrebbe potuto mettere in crisi una cosa che si chiama Acieloaperto, permettendomi così di godere appieno di tutto il restante, lunghissimo, elenco di lati positivi che la rassegna porta con sé e che ormai da sei anni le consentono di inserirsi meritatamente tra gli eventi estivi più interessanti nell’east coast del nostro povero stivale: un programma musicale di livello, una location suggestiva, un’organizzazione impeccabile, rispetto svizzero degli orari dichiarati, street food di qualità che va oltre il solito furgoncino stanco affogato nel lardo di salsiccia stantìa cotta nella nafta e pure un paio di stand con dischi nuovi e usati che, a giudicare dai fitti capannelli di gente che li circondano, si rivelano una proposta a dir poco azzeccata.

Come per le etichette scritte a mano che mettono ordine tra l’offerta dei CD, un ipotetico censimento effettuato attraverso un altrettanto ipotetico filtro “Eels” dividerebbe la popolazione media degli ascoltatori in tre macrogruppi principali: quelli nati stanchi, per cui la carriera della band si è virtualmente conclusa nel 1996, quelli nati tardi, che nel 1996 non facevano ancora le elementari ma cinque anni dopo erano comunque maturi a sufficienza per apprezzare Shrek, e quelli nati (e cresciuti) ossessivi che, a partire dal 1996, hanno seguito con affetto, costanza, curiosità e abnegazione — spesso con il fare un po’ morboso di chi sente qualcosa come suo — le (dis)avventure di Mr. E e compagni.

Esclusi i primi per un disinteresse conclamato nel tempo e buona parte dei secondi per evidenti ragioni anagrafiche, quello raccolto all’interno dell’intimo abbraccio della cerchia muraria della Rocca Malatestiana è un meraviglioso best of di quest’ultimo insieme di aficionados: splendidi trenta-quarantenni che hanno saputo sopravvivere alla delusione di un mancato millennium bug facendosi una vita e guadagnandosi uno stipendio più o meno precario che gli garantisce comunque lo sfizio di regalarsi l’ultima maglietta del gruppo che stanno per ascoltare, a patto però di acquistarla — a peso d’oro — prima del concerto perché poi, alla fine, è sempre meglio anticipare il deflusso dato che domani, anche se è domenica e non si va a lavorare, c’è comunque da fare la lavatrice, tagliare l’erba del giardino o anche solo rivedere le vecchie puntate di X-Files.

Ho detto 1996 perché Beautiful Freaks, nel bene e nel male, ha segnato uno spartiacque nella storia della formazione californiana: dal punto di vista artistico è stato uno degli album più indovinati della band (il classico “disco giusto al momento giusto”), dal lato più prosaicamente commerciale rimane tuttora di gran lunga quello di maggior successo in termini di vendite (l’unico a contenere una vera e propria hit da MTV, quando ancora una hit su MTV significava un bel gruzzoletto senza necessariamente dover svendere il culo), ma soprattutto in termini estetici (sia di contenuto che di target) ha segnato un ben preciso recinto dal quale Everett non è mai riuscito a (sarebbe più preciso dire non ha mai avuto nessuna intenzione di) uscire del tutto e che in qualche modo lo ha (auto)ghettizzato in una golden cage di indieness disadattata: orgoglioso portavoce e talentuoso cantore di irresistibili scherzi della natura (lui stesso in primis) che comunque riescono immancabilmente a sorridere del loro essere perennemente fuori posto.

La new entry nella scuderia di questo buffo carnevale itinerante stasera ha due cappelli in testa, gli scarponi antinfortunistici e il barbone selvaggio di un viandante ormai da troppo tempo lontano da casa. Un po’ artigiano prestigiatore, un po’ scienziato pazzo senza fissa dimora, Mike Silverman apre le danze quando il sole di questi giorni più lunghi dell’anno ancora non è scomparso dietro la sagoma del camminamento della fortezza cesenate e si presenta sul palco come That 1 Guy, one-man-band formata da lui, tutto il suo entusiasmo e un serie di strumenti DIY rigorosamente autoprodotti, dai quali non è effettivamente chiaro come facciano a uscire certi suoni.

Contrabbassista di formazione classica, diplomato al conservatorio di San Francisco, dopo aver frequentato la locale scena progressive-jazz alla fine del secolo scorso e concluso che il tutto era estremamente limitante e noioso, ha deciso di fare — appunto — da sé e si è costruito un aggeggio di due metri abbondanti che non capisci bene — prima che ci si avvicini e inizi a sfiorarlo — se è una grondaia di acciaio inossidabile o una specie di forca hi-tech a cui appendere quel che resta della musica sperimentale dei giorni nostri. «This is my Magic Pipe», esordisce, scandendo le sillabe con l’affetto e l’orgoglio con cui ti presenterebbe la sua nuova fidanzata e così — inevitabilmente, dopo un paio di pezzi — i due sono già la mia coppia dell’anno, caldamente consigliata a tutti coloro che, sempre alla ricerca di nuovi ascolti, non hanno propriamente fame, ma più voglia di qualcosa di nuovo.

Concetto, questo (quello di “qualcosa di nuovo” dico) che gli Eels reinterpretano a modo loro, utilizzando il suo esatto contrario (cosa c’è di meno nuovo di due pezzi vecchi rispettivamente venti e quaranta anni, per di più scritti, a suo tempo, da altri?) per fare qualcosa di così raro da risultare — a tutti gli effetti — nuovissimo. Non so voi, ma io — così a braccio — non mi ricordo un concerto (sagre del tortello con la lepre escluse) che inizi con due cover. E invece qua, dopo l’ingresso — più surreale che trionfale — sulle note della colonna sonora di Rocky condita di trombette da stadio il cui delirio casinista ci ricorda che da qualche parte qualcun altro sta giocando i mondiali di calcio — si parte con la combo The Who + Prince (Out In The Streets, subito seguita a nastro da Raspberry Beret). Tocca aspettare, insomma, fino al terzo pezzo in scaletta (Bone Dry, uno degli ultimi singoli) prima di trovare qualche nota originale di chiara marca everettiana, ma a quel punto la situazione è già chiara a tutti: chi è arrivato fin qua sperando in un’overdose di disperazione e scoramento può tranquillamente togliersi la coda che aveva preventivamente messo tra le gambe e iniziare a scodinzolare allegramente a ritmo di rock, perché il menu è completamente diverso dal brodino di autoflagellazione che forse aveva previsto — «Dear friends, we’re here to share with you an unbelievable pack of good vibes and light comedy!»

In realtà, chi conosce il personaggio in questione sa per certo che quella malinconia strisciante mascherata di sprezzante pessimismo cosmico che pervade la sua poetica parla esattamente dell’opposto, ovvero del tentativo di mettere la testa fuori dal proprio angolo, di abbandonare lo sgabuzzino dove ti sentivi perso, alla ricerca (quasi omerica) di un approdo, un posto dove — perdonate l’ardire — stare bene.

Chi poi ha dato un’occhiata un po’ più approfondita ai testi del suo ultimo lavoro o ha prestato un minimo di attenzione alle dichiarazioni che lo hanno preceduto («The world is going nuts. But if you look for it, there is still great beauty to be found. Sometimes you don’t even have to look for it. Other times you have to try to make it yourself. And then there are times you have to tear something apart to find something beautiful inside.») avrà pure notato che, negli ultimi tempi, è addirittura cambiata la prospettiva con cui affrontare questa odissea. Nel senso, lungi da chiunque bollare questo momento storico come il turning point in cui il signor E si è arreso all’ottimismo, ma parole del genere te le spieghi solo in due modi: o qualcuno è andato in piena overdose da Novocaine For The Soul (splendida, tra l’altro, la sua nuova versione, ancora più grezza dell’originale — come se gli Helmet suonassero Neil Young), oppure davvero, quando ogni cosa intorno a te sta cadendo a pezzi, l’unico modo per uscirne illesi e non farsi rottamare è aspettare nascosti che il pulviscolo si sia posato del tutto sulle rovine e solo allora cercare tra quel che resta una nuova ragione per ricostruire qualcosa di più duraturo.

Va da sé, infine, che nessuno lo sa meglio di chi è già stato almeno una volta alla transenna di una performance degli Eels: quell’etichetta di impronta masiniana, quell’ormai consolidata abitudine di dare per scontato che la musica di uno a cui è andato quasi tutto storto sia necessariamente portatrice (in)sana di depressione latente è assolutamente ingiustificata, superficiale, fuori luogo e — soprattutto — si sgretola di fronte all’evidenza. Da un lato è infatti sicuramente vero che il nostro (anti)eroe ha costruito una carriera sul concetto di catarsi e ha passato due decenni buoni a tentare di fare a pezzi la propria psiche per poi ricostruirla in musica, ma dall’altro bisogna riconoscergli di essere riuscito a mantenere sempre e comunque un invidiabile, abbacchiato, senso dell’umorismo che gli ha permesso di sopravvivere alla sua storia, a se stesso e a un sacco di altre cose tra cui — non ultima — la convinzione (molto diffusa verso la fine degli anni ‘90) che una barba incolta e un atteggiamento distaccato fossero sufficienti per sembrare intelligente («Don’t assume I’m a clever pop star. People only think that because I wear glasses.»)

Perché — chiariamolo una volta per tutte — Mark Oliver Everett è estremamente intelligente, brillante e — udite udite — divertente: tiene il palco da istrione, facendo dell’autoironia uno stile di vita e prendendosi costantemente gioco di se stesso, del pubblico, dei tecnici e soprattutto dei suoi musicisti («What you’ve seen here tonight, for the most of the time, is a stunning display of badassery. But what I want you to know is that underneath these badasses, there are… legs!»). Musicisti (i fedelissimi The Chet alla chitarra e P-Boo al basso ai quali si è aggiunta alla batteria la nuova variabile impazzita Little Joe che, in quanto ultimo arrivato — «I’d like you to be open minded and welcoming, because you all were the new guys somewhere too: we all know what that feels like.» — si merita una presentazione speciale con un’intera canzoncina, composta ad hoc secondo le buffe regole del call & response di matrice gospel) con cui dimostra di avere un affiatamento invidiabile e che lo seguono, ben addestrati, in qualunque bislacco sketch gli venga in mente.

Riposte nel guardaroba sia le tute da ginnastica del tour di Wonderful, Glorious che i completi gessati di quello di The Cautionary Tales Of Mark Oliver Everett, si presentano con un look tanto casuale quanto casual (se si esclude il fatto che indossano tutti un paio di occhiali scuri) e saltano equamente e in scioltezza tra i due binari principali che da sempre caratterizzano la produzione della band: caustiche ballate minimali che rivoltano i cuori come guanti messi alla mano sbagliata (I Like Birds, Climbing To The Moon, The Look You Give That Guy) e vigorose sporcizie blueseggianti (Dog Faced Boy, Prizefighter, You Are The Shining Light) dove le chitarre si caricano sulle spalle linee melodiche che nel primo dopoguerra sarebbero toccate a una cazzutissima coppia di sax.

L’intero ambaradan è così dichiaratamente fuori dal tempo che a tratti viene da chiedersi com’è che tutto ciò sia, a un certo punto, potuto finire nel piccolo calderone di quello che una volta era considerato l’indie-something. Anzi, il dubbio di fondo è più subdolo: se abbiamo voluto chiamare indie questo, allora qualcosa che avesse senso definire “indie” sul serio esiste o è mai esistito? Perché qui, grazie a Dio, non c’è nessun bisogno di andare a cercare nicchie o categorizzazioni di parte, precisazioni complesse o combinazioni improbabili: questo è rock’n’roll puro e semplice, anche se di qualità eccelsa e opportunamente ricalibrato per un’epoca in cui se ti azzardi a dire rock’n’roll subito ti chiedono di specificare meglio, aggiungendo almeno un paio di aggettivi, perché “rock’n’roll non vuol dire niente”.

«Are you ready for some sweet soft bummer rock

Come al solito, a tirarci fuori dall’impasse — fornendoci su un piatto d’argento la definizione esatta, quella buona per far bella figura quando descriviamo gli Eels a chi deve per forza sentirsi originale — è proprio Everett, lui che con la difficoltà di raccontare se stesso e la sua band ci va a braccetto da una vita e l’unico modo che ha trovato per non rimanerci sotto è stato quello di passare tutta la vita a raccontarsi tramite la sua band. Perché si sa: l’esercizio fa bene e aiuta a conoscere meglio la materia, ma quando la materia sei tu allora non si chiama più semplicemente “esercizio”. Si chiama training autogeno.

Sarà per questo impulso all’autoanalisi che alla lunga diventa contagioso, ma — mentre i quattro tornano per la terza volta sul palco per l’ultimo dei due encore (ancora Prince — When You Were Mine — e, a chiudere lo show, un epico medley tra Love and Mercy, Blinking Lights e Wonderful, Glorious) — anche io vado a rovistare nei ricordi senza grosse pretese riguardo a quello che potrei trovarci. Casulamente lo faccio in uno dei pochi momenti in cui la mia memoria ha un guizzo di lucidità e mi riporta alla mente alcune affermazioni attribuite al buffo ometto che ho davanti, tornate a galla da una vecchia intervista: «I don’t know how to categorise us. I guess you could say we are what they now call a mash-up. Sometimes we rock and sometimes we roll. Fitting it all together is what’s interesting. In rock’n’roll, the ‘and’ is the tricky part.»

Ecco.
A rivederli oggi, se c’è una cosa che possiamo dire senza paura di essere smentiti è che agli Eels, quella congiunzione così fastidiosa, non fa più così paura. Anzi, hanno imparato a gestirla in maniera magistrale. Di più, ne hanno fatto il loro, singolarissimo, punto di forza.


Foto di Simone Fiorucci

Exit mobile version