Edward Hopper, lo straordinario pittore mediocre

Capita forse troppo raramente, a noi europei, di riconoscere un dipinto americano senza doverci pensare troppo su, né dover vantare una professoressa di storia dell’arte particolarmente scrupolosa. I Nottambuli (Nighthawks) di Edward Hopper è sicuramente una delle poche opere americane a potersi dire davvero parte della coscienza collettiva del ventesimo secolo. Una mostra a Bologna, in arrivo a metà marzo a Palazzo Fava, porterà questo mite, quasi umile genio della pittura agli occhi degli spettatori italiani, raccogliendo circa 160 sue opere tra alcuni suoi famosi dipinti a olio e molti schizzi preparatori a carboncino o gessetto. La mostra è promossa dalla partnership con il Whitney Museum of American Art di New York, che ha avuto un importante ruolo nella vita di Edward Hopper e al quale Jo Hopper, moglie del pittore, ha donato tutta la collezione di opere del marito alla sua morte.

Ma chi era Edward Hopper, e come ha fatto a rendere importante il Realismo americano da contemporaneo di personalità del calibro di Jackson Pollock, Andy Warhol e Robert Rauschenberg?

Edward Hopper si distanzia molto, moltissimo dall’idea stereotipata di artista che l’ottocento francese ci ha cresciuto in testa: studia dai realisti e all’apparenza ha ben poco di innovativo. La sua vita privata è quasi banale, noiosa: nasce in una famiglia borghese e moralista in un sobborgo di New York, è appassionato di architettura e sogna di diventare architetto navale, ma i genitori lo spingono a studiare illustrazione per diventare un pubblicitario. Il ventesimo secolo si è appena affacciato alla storia, a quei tempi la pubblicità si basa sull’illustrazione (vi dice niente il nome Alfons Mucha?); per chi sa disegnare, e il piccolo Hopper sa disegnare, la pubblicità rappresenta un mestiere “sicuro”. E infatti, come tanti di noi incastrati in un lavoro che non ci piace e non ci stimola, Edward Hopper si guadagnerà da vivere facendo l’illustratore negli anni (parecchi, invero) in cui il suo talento di pittore non è ancora affermato e i suoi quadri non vendono. Dirà di quel periodo:

L’illustrazione non mi interessava affatto, ero costretto a praticarla nel tentativo di fare un po’ di soldi, quest’è tutto.

The Dry Dock Dial, illustrazione di Edward Hopper, 1918
Smash The Hun, illustrazione di Edward Hopper, 1919
Copertine di Hotel Management, Edward Hopper, varie date

Le illustrazioni rappresentano il mondo del consumismo, dell’allegria e del vitalismo, ma questi sentimenti per Hopper non sono sinceri, non ce n’è traccia nei suoi personaggi. Nel 1900 decide di iscriversi alla neonata New York School of Art, dove è allievo dell’impressionista William Merrit Chase da una parte, e del realista Robert Henri dall’altra. Appena finiti gli studi, Edward Hopper intraprende una serie di viaggi verso l’Europa, dove si stabilisce prevalentemente a Parigi. Non è un grand tour quello che fa, né scappa dalla famiglia. Non è incline alla vita da bohème; abita vicino al Louvre, da cui scrive appassionate lettere alla madre: “Qui non hanno il nostro inverno gelido, i treni e i bus sono sempre in orario, le strade pulitissime”, “le mutande pesanti si stanno consumando, quelle leggere invece sono ancora in buono stato” firmate “tuo figlio ed erede” e “il tuo figlio maschio”. Più tardi dirà “Chi ho incontrato [a Parigi, n.d.a.]? Proprio nessuno. Ho sentito parlare di Gertrude Stein, ma non ricordo affatto di aver sentito nominare Picasso. In genere andavo nei café la notte, mi sedevo e osservavo. Sono andato anche un po’ a teatro.” Ma la Ville Lumière non è tutta eccessi e bagordi per Hopper: i bellissimi edifici lo ispirano alla pittura molto più della torre Eiffel (che ignora deliberatamente), è incuriosito dalla dimensione sociale dei café e della folla, impara il francese e si fa sedurre dalle letture di Verlaine, Rimbaud, Baudelaire. Disprezza Cézanne (“manca di sostanza”) mentre ammira profondamente i paesaggi di Courbet, l’uso della luce di Rembrandt, la tecnica degli impressionisti. Disegna caricature di prostitute con sottile e distaccata ironia puritana, chiamandole “figlie della gioia”. Entra a contatto col neonato mondo della fotografia, alla quale la composizione dei suoi dipinti deve tanto: si innamora delle suggestioni malinconiche e solitarie delle foto di Eugène Atget, che lavorava tra gli altri per Man Ray. Prova a visitare Londra, l’Olanda, ma vi resiste sempre solo per pochi giorni. Rientra in America nel 1907, ormai deciso a diventare un pittore di successo.

Le Bistro, Edward Hopper, 1909

Il suo maestro, Robert Henri, è intanto diventato famoso con la mostra de “Gli Otto“, con la quale lui stesso e sette suoi allievi si sono dati al realismo con intento antiaccademico. I quadri dalla palette chiara e serena che Hopper ha dipinto a Parigi non piacciono: vengono completamente ignorati in una mostra sugli artisti contemporanei americani (Exhibition of Paintings and Drawings by Contemporary American Artists), alla quale Hopper ha contribuito con tre dipinti di soggetto parigino. Fa ritorno per un periodo a Parigi, ma nel 1910 è di nuovo in America più depresso che mai. Ha nostalgia della Francia e dei temi francesi, ma capisce che per lui è arrivato il momento di dimenticarsi dell’Europa e tentare di diventare “realmente” americano.

Vende il suo primo quadro solo nel 1913, Sailing, per 250$. Preso dall’entusiasmo per questo primo riconoscimento ufficiale, Edward Hopper si trasferisce al Greenwich Village, in uno studio enorme e scomodissimo, senza bagno privato e distribuito su quattro piani, ma la luce e gli alti soffitti sono abbastanza per lui. Presto però scoprirà di essersi troppo affrettato a bearsi della fama: Sailing resterà l’unico quadro venduto da Hopper per un decennio. Propone il bellissimo Soir Bleu, l’ultimo di tema parigino, in un’altra mostra ma viene completamente ignorato. L’influenza della Francia è evidente: la desolazione del clown è praticamente la stessa che troviamo nella bevitrice d’assenzio di Edgar Degas.

Soir Bleu, Edward Hopper, 1914 – museumsyndicate.com

Inizia allora a produrre incisioni con la tecnica dell’acquaforte, sempre col suo distintivo entusiasmo: “Non lo so perché ho iniziato, volevo incidere, tutto qua.” Le incisioni sorprendentemente vendono molto meglio dei suoi dipinti, e lo aiutano a distrarsi dall’atmosfera carnevalesca del Greenwich Village preso d’assalto da immigrati attratti dal basso prezzo delle case, che disturba i suoi valori vittoriani.

Night on the El Train, Edward Hopper, 1918, acquaforte

Il suo amico, pittore e compagno di studi Guy Pène du Bois dice di lui, in una bellissima descrizione del 1918 in cui lo dipinge a pennellate:

E.Hopper è un mio alto, magro amico che ha iniziato con l’illustrazione qualche anno fa e continua tuttora. Lo sto vedendo poco al momento. È un lettore vorace. Si è letto tutta la produzione francese moderna, molto della russa, molto della tedesca. Ama l’abile dissezione della specie umana. Odia l’amore? Lui stesso è timido come uno studentello inglese. Alto e col viso scavato, muscoli masticatori prominenti, denti forti, bocca grossa, labbra carnose ma non sensuali.

È freddo nei suoi dipinti. Blocca fuori le cose. Non si prende quasi nessuna libertà nella manipolazione. Porta avanti il suo piano. Pensa allo spazio. Non si avvantaggia di nessuna casualità. Figure statiche. Ama il romanticismo delle uniformi.

Era il migliore della nostra scuola ma, al momento, non è un artista. Non è libero abbastanza per esserlo. Troppo riserbo anglosassone, e la cosa non gli piace per niente. In effetti ama la libertà dei latini.

Dovrebbe essere sposato. Ma non riesco a immaginare a che tipo di donna. La fame di quell’uomo.

Mi fa sempre venire voglia di far inciampare una frase dopo l’altra incautamente. Non è affatto tedioso anche se mi fa sentire come una carta o una farfalla pazza – una delle due o anche entrambe. Quanta sincerità.

Ma la sua fame, la sua fame! Mi piacerebbe vederlo uscire dalla sua condizione attuale. Mi piacerebbe vederlo felice.

Guy Pène du Bois, in effetti, ci aveva visto giusto: non era facile immaginare la donna che avrebbe condiviso il resto della vita con Edward Hopper.

Josephine Verstille Nivison, Jo come tutti la chiamavano, di sangue celtico e gallese ma nata in America, è una vera forza della natura. Nata in un contesto familiare turbolento, il padre “un terrore conviverci”, la madre permissiva e indipendente, un fratello minore alcolizzato, Jo preferisce immediatamente i libri per astrarsi dalla realtà. Cresce a New York, invece di doverci arrivare da immigrata, e così può studiare l’arte e la letteratura e diventare una pittrice. È anche lei allieva di Robert Henri, che ne adora l’aria determinata e battagliera. Frequenta circoli di femministe nel Greenwich Village e si unisce a una compagnia teatrale nella quale fa l’attrice non protagonista in alcune rappresentazioni. Incontra varie volte Edward Hopper durante le gite estive di un circolo di pittura, entrambi hanno circa quarant’anni, e lì i due scoprono di avere una comune passione per il francese, si recitano romanticamente poesie di Verlaine, si ispirano a vicenda nella pittura entrando in competizione.

I due sono diversissimi. Lui alto e imponente, lei bassa e piccolina; lei gregaria, socievole, aperta, lui timido e introspettivo, taciturno e poco socievole. “Apre raramente bocca, ma se dice qualcosa, è o molto intelligente, o molto saggia, o entrambe.” dice Jo di lui. E ancora: “A volte parlare con lui è come lanciare un sasso in un pozzo, solo che non fa rumore quando sbatte sul fondo.” Si contrastano perfino sullo stile di pittura: Jo dipinge spesso in verticale, “il punto di vista del verme”, Edward in orizzontale, “il punto di vista dell’uccello” (definizioni di Hopper).

Jo viene invitata a mostrare degli acquerelli dal Brooklyn Museum, lei suggerisce ai curatori di prendere in considerazione anche il lavoro del futuro marito. Finisce che i critici sono tutt’occhi per lui, e quasi ignorano lei. Il museo compra un quadro di Hopper, finalmente sembra che il successo stia per arrivare, ma Edward nega che Josephine abbia avuto un ruolo nel suo riconoscimento. Adesso i due vivono insieme nello scomodo studio di Hopper, frequentano il ristorante cinese che figura in Chop Suey, e si sposano nel 1924. “Perché mi hai sposata? Dimmi tre ragioni” chiederà Jo a Edward durante un futuro litigio. La risposta di lui è secca e coi piedi per terra come sempre: Hai i capelli ricci. Sai un po’ di francese. Sei orfana.

Chop Suey, Edward Hopper, 1929. La miniatura è disponibile per “fair use”

Il matrimonio non è comunque tutto rose e fiori, tutt’altro: il talento pittorico di Josie fa ingelosire Edward Hopper, che quindi si mostrerà sempre sprezzante verso i quadri della moglie, arrivando a vietarle l’uso dell’auto per evitare che trovi belle scene da dipingere. Dal canto suo, Jo è spesso bisbetica e insoddisfatta. Lo difende energicamente dalle critiche esterne, ma soffre del suo carattere chiuso e isolato. Non ha un briciolo di senso dell’umorismo e prende con estrema serietà tutti i rimbrotti ironici che Hopper le rivolge, stizzita. È l’anima “letteraria” della coppia: annota su dei diari tutto quello che le succede, tiene traccia esatta dei quadri del marito e delle sue vendite, mentre lui disegna vignette spiritose sulla vita di coppia.

Siamo nel 1925: Edward Hopper è un pittore ormai abbastanza affermato, può finalmente smettere con l’illustrazione e le incisioni. Il proibizionismo è a metà della sua vita e Hopper, da bravo bastian contrario, dipinge i contrabbandieri di whisky in I Contrabbandieri (The Bootleggers). La sua visione politica non è mai sottolineata o espressa chiaramente, come facile aspettarsi da un uomo così silenzioso e riservato. Risponde a una campagna della stampa per vietare gli spettacoli burlesque con The Girlie Show. È tramite la sottile ironia dei suoi dipinti che si legge la critica verso l’America degli eccessi di moralismo, nonostante il suo essere fondamentalmente un conservatore. House by the railroad raccoglie un po’ gli stilemi che diventeranno presto i classici della pittura di Hopper: l’attenzione alle forme architettoniche, la luce protagonista della scena, l’atmosfera vagamente spettrale. Vi sembra una casa familiare, vero? Ecco perché. 

House by the Railroad, Edward Hopper, 1925
Automat, Edward Hopper, 1927

Automat è un altro capolavoro di quel periodo. Alienazione e silenzio la fanno da padrone in questa scena asfittica: sembra quasi di percepire il respiro sconsolato della giovane e il tintinnio della tazzina nell’immobilismo della scena.

Il Whitney Museum e il Metropolitan Museum iniziano a comprare le opere di Edward Hopper per migliaia di dollari. Nel 1933 il MoMa gli dedica la prima retrospettiva, che riceve critiche non entusiastiche e mina un po’ la sua già scarsa sicurezza. Marito e moglie decidono di comprare un terreno a Cape Cod e si disegnano e costruiscono una villetta dove passare le estati, con panorama sulla baia. Sono come sempre in disaccordo su tutto: lui passa le giornate a guardare le colline, lei il mare. Jo posa spessissimo per i suoi dipinti, visto che la sua gelosia di donna autoritaria impediva a Edward l’utilizzo di altre modelle femminili. Dopo aver posato lungamente per un ritratto, Jo scrive nel suo preciso e aggiornato diario: “una triste esperienza. (…) mi fa sembrare una creatura pesante e ciondolante, come se avessi bevuto. (…) Anche Edward pensa che non mi somigli affatto-ma proprio non riesce a dipingermi per come sono- non ne ha la capacità.” Alla fine degli anni ’30 Edward Hopper è ormai un pittore affermato, anche se dalle scarse vendite, mentre le opere di Jo non vengono da lui mai prese davvero sul serio. La crisi del ’29 si è allontanata lasciando un po’ di incertezze, ma sta per arrivare la guerra. Sono di questo periodo Cape Cod Evening (1939) e Ground Swell (1939).

Cape Cod Evening è un dipinto inquietante pur se realistico: i protagonisti, invariabilmente gli Hopper, guardano il cane che sembra fiutare nell’aria un pericolo imminente. La presenza incombente del bosco scuro alle loro spalle contribuisce al senso di oppressione, come se una tempesta fosse in arrivo da un momento all’altro. Il prato è “ripulito” dagli elementi di realismo. La scena sembra, nel complesso, provenire da un brutto sogno, uno di quelli da cui ci si sveglia in preda al panico appena prima che succeda qualcosa di terribile.

Ground Swell mostra un sentimento molto simile. Quattro figure in barca a vela ascoltano l’allarme dato dalla boa che contiene una campana tintinnante. “Ground swell” è la condizione di mare agitato da onde profonde, spesso causate da una tempesta lontana. La macchia nera costituita dalla boa è un memento mori: in ogni momento il pericolo può interrompere la splendida giornata di sole brillante. Edward Hopper completa il dipinto il 15 settembre 1939: appena 15 giorni prima la Polonia è stata invasa nelle prime mosse della Seconda Guerra Mondiale.

Edward Hopper è un pittore riflessivo, che non muove il pennello sotto nessuna febbrile ispirazione, anzi cade spesso vittima di mancanza di idee. È lento e metodico, e per ogni soggetto prepara infiniti schizzi, a carboncino, a gesso e così via.

Ci vuole parecchio tempo perché un’idea mi colpisca. Poi ci devo pensare per lungo tempo. Non inizio a dipingere finché non ho tutto ben chiaro in testa. Quando mi avvicino al cavalletto, sono già pronto.

Nottambuli (Nighthawks), Edward Hopper, 1942

Nottambuli (Nighthawks), l’iconico capolavoro di Hopper, è datato 1942. Come per ogni suo dipinto, prima di mettersi all’opera sul cavalletto aveva già sperimentato diverse composizioni dei personaggi. Il nome della tela viene da un suggerimento di Jo, la quale aveva come sempre posato per il personaggio femminile, mentre il modello dei personaggi maschili era stato lo stesso Edward tramite uno specchio. L’idea veniva da un café aperto tutta la notte a Greenwich Village, all’incrocio di due strade. Hopper commenta “Non lo vedo come molto solitario. Ho molto semplificato la scena e reso il ristorante più grande. Forse, inconsciamente, stavo dipingendo la solitudine in una grande città”. Anche in questo caso, a creare lo straniamento interviene la totale semplicità del disegno: sembra una fotografia dalla lunghissima esposizione in cui tutti gli oggetti in movimento scompaiono. Il tempo è dilatato, la notte sembra durare per sempre. I personaggi non interagiscono, passano la sera in un diner ma senza parlarsi. Nemmeno il cameriere sembra mostrare alcun interesse per i suoi avventori. È la scena di un film che prepara al disastro, piena di suspance. Ma la magia dei dipinti di Hopper è questa: non succede assolutamente niente. Lo spettatore sembra introdursi in punta di piedi in una scena in cui non dovrebbe esserci: un rumore di troppo, e ci aspettiamo che i personaggi del quadro ci sorprendano a guardarli, infastiditi.

Wim Wenders è un grande ammiratore di Edward Hopper: mostra i suoi quadri al direttore della fotografia di tutti i suoi film. È lui a dare forse una delle interpretazioni più belle dei dipinti di Hopper:

Abbiamo l’impressione che qualcosa sia successo o stia per succedere. Se guardi lo stesso dipinto dopo 10 minuti, hai l’impressione che qualcosa sia successo.

Al ritorno da un viaggio in Messico, Edward e Jo si uniscono a un gruppo di pittori che protesta contro l’egemonia dell’astrattismo e punta a difendere e preservare l’esistenza della pittura realista. Ne nasce una rivista, Reality, che si apre con un’accusa al MoMa per la sua eccessiva attenzione alle arti non figurative. Lavorare alla rivista è anche una scusa per il momento di immobilismo di Hopper, che non ha nuove idee e vede i suoi amici intorno morire di vecchiaia.

Il suo ultimo dipinto è Two comedians (1965): Edward Hopper ha 83 anni, e si congeda dalla vita mano nella mano con la fedele Jo. È come se, dopo una vita passata a far spiare lo spettatore quasi di nascosto nei suoi dipinti, da finestre più o meno invisibili, esca allo scoperto il regista, chiarendo il significato del film.

Muore nel 1967 nel suo studio di New York, rapidamente e serenamente. Josephine non gli sopravvive che 10 mesi. Tutte le sue opere vengono donate al Whitney Museum. Jackson Pollock è già morto da qualche anno, Andy Warhol è nel pieno della sua fama e immortala Marylin Monroe, il genio visionario di Jean-Michel Basquiat è di là da venire e il Realismo Americano ha perso il suo principale padre.

Fare un commento finale sulla modernità assoluta di questo senso di alienazione presente nell’opera di Hopper non solo sembra superfluo, quanto forse tradirebbe le volontà stesse del pittore. Odiava le interpretazioni dei suoi quadri quanto odiava parlare di sé: “Tutte le risposte sono lì sulla tela”. E ancora: “Ero più interessato alla luce del sole sugli edifici e sulle figure che a qualunque tipo di simbolismo”. Eppure qualcosa, nel realismo neoclassico di questo artista così enigmatico, resta attaccato addosso e ossessiona: in fondo, la realtà che rappresenta inquieta e fa paura proprio perché verosimile.

Rooms by the sea, Edward Hopper, 1951

Tutte le citazioni sono tradotte dall’inglese dall’autrice

Exit mobile version