Qui, dal duemiladiciotto, la stagione indie sembra così lontana. E in effetti, se pensiamo che l’ondata indie venne fuori all’inizio del Duemila lo è davvero. Sono quasi venti gli anni che ci separano dall’epica di quel racconto in forma di musica, e cosa resta nelle radio italiane ora – di quella stagione – se non qualche traccia sparsa qui e là in forma di singolo della memoria da riascoltare su Virgin Radio? In quegli anni zero scoprimmo anche che il post punk viveva un glorioso revival. Così l’indie rock si mescolava a una sensibilità più dark, le chitarre tristi si univano a batterie e bassi che portavano il ritmo con fare decadente, e a qualcuno piaceva riascoltare i Joy Division per perdere contatto con la realtà. Come se fossimo tornati agli Ottanta in un colpo, ma riadattando il sound a quelle che erano le erano le nuove sensibilità dell’indie rock.
Avevano inaugurato tutto alla grande gli Interpol con Turn On the Bright Lights nel 2002, avevano seguito i National con Sad Song for Dirty Lovers (2003) e Alligator (2005), e poi c’era la band inglese di Tom Smith, gli Editors, che esordiva nel 2005 con The Back Room. Tra i tre gruppi, gli Editors son sempre stati quelli che davano un tono più epico e carico al suono. Sin dal singolo Munich, per quanto oscuri, cupi, e per quanto a tratti ricalcassero gli Interpol, per quanto la voce di Smith fosse piena e corposa come quella di Paul Banks e di Matt Berninger, si sentiva che c’era un’elemento che distorceva il più classico post punk sonoro delle altre due band americane. Eppure The Back Room in quel 2005 si manteneva cupo e disagiato a dovere.
Ma sarà il 2007 a sparigliare le carte e dare una direzione più chiara ai tre percorsi. I newyorkesi Interpol – capostipiti del disagio esistenziale più genuino – fanno uscire Our Love To Admire, che dopo le due belle prove precedenti raccoglie meno consensi (anche se pezzi come Pioneer to the Fall restano ancora oggi scaglie roventi dentro le ossa). I National chiariscono che avrebbero preso una direzione più melodica con Boxer, e trovano letteralmente il loro suono (Fake Empire, Slow Show, Apartment Story). Gli Editors tirano fuori An End Has Start, e ci presentano l’elemento teatrale che è in loro. Smokers Outside the Hospital Doors è un singolo devastante – difficile da dimenticare, The Racing Rats si attacca alle orecchie come solo il pop riesce a fare, persino il più lento The Weight of the World sa come sa far crescere l’intensità al momento giusto per schiacciare il tasto “non esco dalla tua testa” che è tipico di un certo pop. Eppure, i pezzi, persino scarnificati e ridotti all’osso, restano belle canzoni.
Sul finire degli anni zero la partita del revival dark o post punk è chiara. Gli Interpol si tengono ai margini dai giochi, i National conquistano un pubblico sempre più trasversale, gli Editors continuano a giocare con un miscuglio di elementi pop nei loro pezzi, arrivando a concepire una Papillon che diventa esemplare per l’uso sapiente di un’elettronica da ballad amara. Persino le radio italiane si sentono in dovere di trasmettere il pezzo. Da lì in poi le strade degli Editors prendono una direzione strana, complice anche l’uscita dalla band del chitarrista Chris Urbanowicz: il singolo A Tone of Love dal disco successivo è il classico singolo catchy, facile all’ascolto e inoffensivo, che scivola via dalla pelle. A questo punto la band è chiamata a scegliere che cosa vuole fare di se stessa, e sceglie di ritrovare le origini oscure con In Dream, dove una sorprendente No Harm abbassa il ritmo delle chitarre e trova vie sperimentali sia alla voce di Tom Smith che al sound d’atmosfera della band, intarsiato da elementi elettronici. Le collaborazioni con Rachel Goswell (Slowdive) e Bob Mould impreziosiscono il disco. Gli Editors hanno scelto – insomma – di non sputtanarsi, di non diventare gli U2, di suonare buona musica. E sanno farlo.
Su queste basi arriva il nuovo album Violence, che inaugura con Cold – un inizio che prova a fare il verso ai The National meno in forma per poi aprirsi a una ventata di electro sound, tra un’epica in cui non è ben chiaro cosa vogliano annunciarci di spettacolare gli Editors (la fine del mondo annunciata da trombe di angeli?), e gli assoli di chitarre che riprendono un certo sound molto indie rock d’inizio Duemila. Eppure se Violence si chiama così c’è un perché, e lo scopriremo presto.
Si tratta di un disco in cui la componente violenta viene rimarcata da beat elettronici (la title track per esempio), e dagli immaginari che dipinge lo stesso Smith con voce e testi per tutto il disco. Violence è un disco pop, ma dalla vocazione oscura, in cui l’elemento dark continua a sopravvivere e anche le ballate più dance ed elettroniche mantengono una certa malinconia, tanto che si potrebbe parlare di una slow dance per piste da ballo oscure.
Però. C’è quel però. Un però che si intravede – ad esempio – nei due singoli di lancio del disco. Magazine è violenta e incalzante, ma non riesce a uscir fuori dallo spettro di quell’epopea sonora in cui si ricurva nella parte centrale. Hallelujah (So Low) è un pezzo più ricercato, ma lascia una certa amarezza in bocca per quel che poteva diventare. Ad ascoltare le nove tracce che compongono il disco resta l’idea che il sogno degli Editors sia infranto, un sogno da ricerca di sonorità schiantato contro contraddizioni e contaminazioni. E non possiamo neanche fare a meno di evocare un certo complesso da Uk in versione Coldplay che pervade qui e là la band di Birmingham.
Sta di certo che mantengono vivo lo stile. E un certo spirito che avrebbe potuto infrangersi facilmente contro canzoni ricopiate l’una dall’altra. E invece gli Editors sono bravi, sono riusciti a mantenersi in forma per tutti questi anni, hanno conquistato più pubblico (lo raccontano anche nell‘intervista che gli ha fatto Giulio Pecci qualche settimana fa a Roma), sono arrivati a più orecchie, e fa niente se per farlo hanno dovuto usare stratagemmi come la candida ballata al piano No Sound but the Wind. Resterà piacevole ascoltare Violence, pantomimare quella slow dance per anime ossessive che vivono nella contemporaneità (provare Counting Spook per credere).
Se gli Interpol hanno marcato su un certo “esistenzialismo” nel post punk indie rock, gli Editors non hanno quell’aspirazione. Sono stati nichilisti, cupi, ossessivi a loro modo, ma poi hanno sempre più cercato la strada della contaminazione che “abbelliva” il suono con elementi sintetici, portandola al limite della dance esplosiva. Violence è una bella prova, che conferma questo tentativo. In fondo anche le anime cupe hanno bisogno di una pista da ballo in slow motion.