Edda – Graziosa Utopia

Chi dice la verità non può chiamarsi Rampoldi”. Era l’ultimo verso di Stavolta come mi ammazzerai?, il terzo disco della carriera solista di Stefano Rampoldi, in arte Edda, un tempo (lontanissimo), voce e frontman carismatico di quel grandissimo gruppo che furono i Ritmo Tribale. Nel 1995 Edda lascia la band e scompare per tredici lunghissimi anni, inghiottito dal buco nero dell’eroina.

Semper Biot, l’album del 2009, segna la sua resurrezione umana e musicale. Sempre nudo, in dialetto milanese, è il titolo che lascia poco al caso e si fa specchio esatto della nuda scarnezza di un disco, destinato a restare nella storia di questi anni, in grado di restituirci, come dono prezioso, un artista autentico capace di raccontare e raccontarsi, attraverso testi visionari e una voce che è impossibile da descrivere con semplici parole.

Dopo due dischi che hanno saputo vestire con un abito sicuramente più rock la nudità dell’esordio solista, alla quarta prova Edda ci consegna invece un disco capace di giocare maggiormente con il pop rispetto al passato.

Fotografia di Elena Agnoletti

Il bisogno d’amore con cui si chiudeva il disco precedente non ha mai lasciato Edda che, nel primo verso di Spaziale, il pezzo che apre il disco, non nasconde, come sempre, il dramma intrinseco all’essere umano “l’amore di ogni giorno diventa normale / è sempre una fatica / tu la guardi e lei ti fa male”. “Chi dice la verità non può chiamarsi Rampoldi” dicevamo, e a dire la verità allora non può che essere Edda, eteronimo che non può ridursi semplicemente a un nome d’arte, ma è una vera e propria chiave d’accesso alla diversità che riguarda tanto se stesso quanto il mondo che cerca di raccontare. Con i cori di Federico Dragogna de I Ministri, Spaziale è una ballata sospesa nel vuoto che, nel ritornello, sembra quasi deformare gli stilemi di tanta vecchia musica sanremese, e propone una via di fuga, un altro amore e un modo diverso di stare al mondo. Torna il tema di Yogini dal primo disco; se lì per non soffrire la via di fuga era l’ammalarsi, qui invece è il morire. Non ci si deve lasciar trarre in inganno però, Graziosa Utopia, questo il titolo del nuovo disco, ci offre un Edda non certo pacificato ma di certo più capace, rispetto al passato, se non di scendere a patti con i propri demoni, di affrontarli sicuramente con maggiore serenità e una nuova dose di leggerezza.

La batteria di Fabio Capalbo e il piano di Luca Bossi (anche al basso, chitarre, rhodes, sintetizzatori, tastiere e pianoforte) aprono invece Signora, uno dei due singoli estratti dall’album, confessione di un amore, come sempre, mai lineare, ma tormentato e complesso “se tu fossi il cielo dentro una stanza mi chiuderei / se fossi nuda e io fossi neve mi scioglierei / forse è solo così che ti voglio bene” in cui emergono gli incubi personali di Edda “ho sempre rifiutato l’intimità / mi disgusta solo il pensiero”, che si domanda (e risponde) in un’atmosfera a tratti shoegaze “cosa ne facciamo dell’umanità / ne facciamo a meno”.

Le chitarre di Signora lasciano spazio all’ms20 che introduce Benedicimi. “I rapporti sessuali son sempre rapporti un po’ strani / in un modo o nell’altro mi faccio sempre del male” dà il via a un’esplosione di chitarre freschissime che si muovono rapide su un tappeto di archi e tastiere fino a un giro di basso in primo piano come nella migliore tradizione seventies. È il pezzo più bello del disco e probabilmente tra i più belli di Edda. Sospeso tra la leggerezza e la ricchezza del suono degli anni sessanta (come un pezzo cui avrebbero potuto guardare i primi romantici Baustelle), Edda riesce, invece, a rivestirlo di quella sua poetica così particolare e personale, evocando quasi di sbieco e con pochi tratti un’atmosfera malata “la peggiore malattia che ho è la voglia di te / ti prego non scopare la mia tenerezza” in cui tra benedizione e peccati emergono i temi che gli sono cari: spiritualità, incubi religiosi, desideri irrisolti, amori che oscillano tra redenzione e perdizione, sesso e morte. “Tanto nessuno è normale”. Mentre la voce non cede di un passo a quella grandiosità acida e malsana che la caratterizza, come se fosse dotata di una carica espressionista da primi del novecento, sorprende, se mai è possibile dopo così tanto tempo, il modo con cui Edda è capace di darsi al suo pubblico con quel misto di sfrontatezza e timidezza, di grazia e impudicizia che sa di oratori e adolescenze mancate.

Zigulì è una filastrocca solo apparentemente pop costruita su un tappeto di synth e di batteria, che nasconde il racconto di un tradimento tra le pieghe di sonorità mai così solari nella sua produzione come qui, celando dietro a un ritornello di tamburelli che fanno molto pop anni ottanta, i timori della frustrazione “sono nata per vincere / non faccio altro che perdere”, e della mancanza di coraggio “Se per caso ti innamorerai / ma quella forza tanto non ce l’hai”.

Brunello ha invece un’andatura decisamente più rock. È un pezzo che sa di spazi chiusi e caldi, e ancora una volta vengono fuori i temi della punizione “chiudimi in una stanza per un anno / e toglimi il sogno” e della vergogna “mi vergogno un altro giorno”, “è il bello della festa è la stella del mattino / è negli angeli caduti che non hanno più destino / questi anni / la voglia che ho dentro è un’umiliazione / desiderio che nascondo / dentro il tuo ventre fammi stare”.

Andatura rock e stessi temi caratterizzano anche Picchiami: “signorina deliziosa /coi tuoi vent’anni puoi distruggermi” tra baratri di autostima “sì lo so che non valgo niente / sono nata ma non presente”, e quella sorta di blasfemia verso la vitama perché mi hai messo al mondoche è in realtà traccia fortissima proprio della straordinaria sacralità che ha attraversato, e attraversa ancora oggi, l’universo che abita il cantautore milanese.

Prima c’era stata l’apertura, poco convincente, alle sonorità elettroniche di Un pensiero d’amore che pure ha, però, alcuni picchi tra le righe del testo: “non vedo la complicazione / se mi masturbi l’anima”, “porca e madonna volevo restare / insieme a te”, “mi sto facendo d’amore / mi profumo due parole”.

La liberazione è un’invocazione, coi tempi di una delicata ballata romantica, alla dimenticanza, al senso della liberazione e della reale volontà di ottenerla e ancora una volta la storia, poetica, di una piccola sconfitta “dalla mia follia non ti dovevano mai far uscire”. Una sorella sconfitta come avrebbe detto Zamboni che però, rispetto al passato, Edda sembra riuscire ad accettare con maggiore abbandono, accogliendola senza le asprezze e i contrasti del passato.

Arrivederci a Roma gode dell’apporto della chitarra di Giovanni Truppi, tra il bisogno d’amore “a volte vorrei essere amata / a volte vorrei essere stata / a me mi salverà l’amore / oppure mi aiuterà il dolore” e versi che ti strappano alla vita e ti s’inchiodano nella testa “ti posso cullare con sangue di mare” venendo trascinata nel finale da un baccanale di suoni e cori che ci conducono alla conclusiva Il Santo e il Capriolo. Gli arpeggi delicati che aprono il pezzo, l’atmosfera da fiaba, un paio di versi che con poesia tracciano il percorso di ogni uomo sulla terra “Ho preso il nome dalla mia mamma / con delle fughe dalle tue gambe che non mi sembrano vere” diventano summa dell’intero album che, come un cerchio, si chiude sull’ennesima invocazione alla verità “purché dicessi la verità / con te non piangeremo” e, mentre l’orizzonte del pezzo si allarga, ci accorgiamo che quella verità, così cercata da un’anima che è sempre al di qua dell’abbraccio con l’umanità “è l’anno santo forse per loro / per me fa freddo” assomiglia molto alla dolcezza, al calore che insieme a Edda, cerchiamo tutti disperatamente. E attraverso la sua grazia ci sembra quasi di poterla cogliere, anche solo per il tempo di un disco.

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