Louise Glück ha vinto il premio Nobel per la Letteratura. Ha vinto la poesia, un certo tipo di letteratura raffinata ed elitaria e ciò ribadisce la linea seguita dall’Accademia svedese, che da alcuni anni non smette di stupire al momento dell’assegnazione del più ambito premio letterario internazionale. Occorre però ragionare sul significato di questa vittoria, tenendo in considerazione i vincitori delle ultime venti edizioni. Non vince l’autore da best-seller, il romanziere prolifico che ha venduto milioni di copie nel mondo, ma l’autore di nicchia, l’outsider, con una netta preferenza verso forme letterarie che in Italia hanno perso seguito come poesia e teatro. Negli ultimi vent’anni ha vinto sempre un autore inatteso, provienente dal mondo del teatro, della poesia e persino della musica (emblematico il caso di Bob Dylan). E mai un italiano. Da ventitrè anni (non c’era mai stato un periodo di digiuno dalla vittoria del Nobel così lungo per gli autori italiani), da quel fortunato 1997 di Dario Fo, per quanto si parli spesso della candidatura di Claudio Magris, in realtà siamo fuori dai giochi.
E la poesia in Italia come sta? Vive e al tempo stesso sopravvive, in un pacato silenzio che non trasgredisce ma corrode. Il problema inizia dalla scuola. Terminata l’esperienza della poesia di Montale, dopo il 1975 sembra che in Italia non ci siano più poeti. Pochi e temerari insegnanti si saranno soffermati e si soffermeranno su autori come Caproni, che fece scalpore quando uscì nella prova dell’esame di maturità, Luzi, Zanzotto, Giudici, Sanguineti, per non parlare dei contemporanei.
Oggi esistono poeti viventi di grande spessore. Il panorama contemporaneo è vasto e variegato. Milo De Angelis con “Millimetri” ha segnato un passaggio decisivo con la sua riflessione su una condizione umana contorta e inesplicabile, che non smette di confrontarsi con i temi del tempo e della morte, specialmente nella raccolta “Tema dell’addio”. Biografismo, la ricerca della riappropriazione di una realtà che sfugge, l’incombere della figura paterna sono tutti elementi caratterizzanti de “Il disperso”, una delle più famose e originali raccolte di poesie di Maurizio Cucchi, erede della “scuola milanese”. Un teatro di voci sussurrate, che emergono pian piano con forza disarmante e costituiscono con la loro compattezza un vero e proprio romanzo del poeta milanese.
L’uomo era ancora giovane e indossava
un soprabito grigio molto fine.
Teneva la mano di un bambino
silenzioso e felice.
Il campo era la quiete e l’avventura,
c’erano il kamikaze,
il Nacka, l’apolide e Veleno.
Era la primavera del ’53,
l’inizio della mia memoria.
Luigi Cucchi
era l’immenso orgoglio del mio cuore,
ma forse lui non lo sapeva.
(tratto da “Poesia della fonte”, Mondadori, 1993)
Patrizia Cavalli e Mariangela Gualtieri
Altrettanto significative sono le prove di Patrizia Cavalli, che insiste sulla centralità dell’io con una poesia crepuscolare, che richiama le pagine di un diario, e Biancamaria Frabotta con il suo forte impegno femminista e con il confronto con la natura presente in “Da mani mortali”. Un taglio più raziocinante e una maggiore attenzione alla forma si evince nelle raccolte di Valerio Magrelli, con un graduale processo di astrazione della materia, non senza un’evoluzione della sua produzione poetica verso soluzioni diverse, come l’uso della strofa. Ma ancora Giuseppe Conte, Maria Grazia Calandrone, Antonella Anedda, Aldo Nove, Mariangela Gualtieri, e i casi eccezionali di copie vendute di Franco Arminio e Michele Mari. Inoltre, piccole ma vivaci realtà editoriali portano ogni anno alla scoperta autori emergenti. A tal proposito mi pare doveroso ricordare il caso di Gabriele Galloni, il promettente poeta suicidatosi all’età di venticinque anni lo scorso mese, una delle giovani voci più carismatiche, profonde di questi anni.
Ho conosciuto un uomo che leggeva
la mano ai morti. Preferiva quelli
sotto i vent’anni. Tutte le domeniche
nell’obitorio prediceva lorole coordinate per un’altra vita.
(tratta da “In che luce cadranno”, RPlibri, 2018)
E il teatro? Questa forma di “pseudo-letteratura” (così da molti ingiustamente ritenuta) relegata alla fine dei libri scolastici, con brevi cenni laconici. Eppure il teatro esiste e la tradizione italiana è una delle più feconde, basti pensare ai contributi di Pirandello, De Filippo, Fo, Bene. L’Italia è diventata una repubblica democratica fondata sul romanzo. Ogni anno si attende l’esito dei premi letterari più importanti, rivolti esclusivamente ai romanzi. Ancora meno valutati sono le forme brevi di scrittura, il racconto, altrove invece stimato e apprezzato, anche al Nobel. Solo dieci raccolte di racconti dal 1947, anno di istituzione del concorso, a oggi si sono aggiudicate il premio Strega. Il premio Pulitzer ogni anno viene assegnato ugualmente per poesia, narrativa, drammaturgia, musica e non solo, come categorie separate, tutte con la stessa importanza. In Italia oggi manca un premio, non dico della statura del Nobel, ma che dia risalto ed equipari la poesia alla forma romanzo.
Il nostro Paese discrimina la letteratura, sceglie arbitriarmente cosa è di serie A e cosa di serie B e scarta il resto. Da un lato però si evince la necessità che alcune forme letterarie, come la poesia, si avvicinino al lettore contemporaneo. Scrivo in riferimento al celebre articolo del poeta Franco Arminio, uscito sul “Corriere della sera” il 10 settembre, che ha fatto molto discutere. Arminio invoca la necessità di parlare e fare poesia nella lingua dei lettori, notando una mutazione nel “cielo della scrittura”, in questo mondo che si è reso “velocissimo” e richiede una scrittura “semplice e breve, diretta e limpida”. Mi affido anche alle parole della poetessa Maria Grazia Calandrone su “Menabò” quando afferma che la poesia si è autoreclusa in una gabbia “parlando solo ai suoi specializzatissimi adepti, chiudendosi in diatribe fra intenditori e smettendo di parlare al suo popolo”.
Aggiungo poi che la poesia non racconta più il tempo in cui viviamo, da qualche anno ormai la parola dei cantautori, la loro musica ha sostituito il ruolo che la poesia ha rivestito per secoli. Mi riferisco ai testi di De Gregori, Dalla, Guccini, De Andrè e non solo. Pur con le dovute eccezioni, i giovani non leggono poesie, perché le poesie non parlano di loro. Eppure i giovani comprano i libri, vanno in libreria, selezionano, scelgono, si informano. Però la poesia è e resta lontana dal loro mondo, come il teatro, alla ricerca di forme sempre più complesse e innovative; da qui la necessità di un cambiamento, pena la totale scomparsa della legittimazione del verso, che rimane materia nuda e astratta. Prima polvere ammassata sugli scaffali delle librerie più coraggiose, poi il nulla.