In occasione dell’uscita del nuovo album di Duke Garwood, Garden Of Ashes, abbiamo raggiunto il cantautore inglese telefonicamente per un’intervista. Ecco cosa ci ha raccontato.
Personalmente ho sentito parlare per la prima volta della tua musica grazie alla canzone Bleeding Muddy Waters contenuta nell’album Blues Funeral di Mark Lanegan, su cui tu hai suonato. Nel 2013 è poi uscito Black Pudding, un album bellissimo, interamente a nome tuo e del cantante americano. La domanda quindi è qual è stato, e qual è tuttora, il tuo rapporto con Mark Lanegan? Cosa pensi che ti abbia dato lavorare con lui, e cosa tu a lui?
Sai, siamo diventati amici non appena ci siamo conosciuti, puoi dire che siamo “soul brothers” in qualche modo. Andammo subito d’accordo e siamo tuttora veramente buoni amici, continuiamo a sentirci molto spesso. Parlando di cosa abbiamo dato l’uno all’altro credo che in modo molto salutare lui mi abbia donato una grande conoscenza del business musicale e dell’ambiente in generale, sai in questo senso lui è un vero e proprio veterano, molto più esperto di me. Ha fatto più dischi rispetto al sottoscritto ed è stato attraverso i suoi alti e bassi, quindi in questo senso mi ha insegnato veramente molto. Penso invece che se c’è qualcosa che io possa aver dato a lui questo sia semplicemente il mio approccio diverso dal suo nel fare musica. D’altronde ognuno ne ha uno differente, io ho il mio e ogni tanto funziona. (ride ndr)
Penso che la tua musica abbia una particolare caratteristica, presente anche nel tuo ultimo album Garden Of Ashes. È quel tipo di musica che si vuole sentire di ritorno da una lunga giornata lavorativa, o magari da un viaggio, ma allo stesso tempo è anche la colonna sonora perfetta per quando si parte, o meglio ancora che fa venire voglia di partire per un posto lontano. Quali di questi due diversi ed opposti stati mentali pensi di avere in mente quando stai componendo?
Oh fantastico, è interessante che tu dica questo perché mentre scrivo io voglio continuare a sentirmi come se fossi in viaggio, a provare quella sensazione di uscire fuori da se stessi e di raggiungere un certo posto. Anche per questo presto molta attenzione ai brani, e non uso una tradizionale tecnica di composizione perché mi sembra che usarne una romperebbe l’incantesimo che si crea componendo in modo istintivo. Le persone mi definiscono blues, e penso che qualche volta sia vero e qualche volta molto meno, perché io in realtà non voglio fare blues, ci sono tante persone che lo suonano molto meglio di me. Penso di fare una cosa in particolare che porta le persone ad identificarmi come blues ed effettivamente ne è una caratteristica, ovvero il tenere un certo groove e girare intorno a quello, senza cambiarlo troppo. Faccio questo perché cerco di rimanere in quel “posto” verso cui ho viaggiato e che sono riuscito a raggiungere, come ti dicevo all’inizio.
Immagino che qualcuno abbia voglia di sentire la mia musica dopo una lunga e faticosa giornata proprio perché ti porta lontano dalla realtà del momento: torni stanco dal lavoro e non vuoi pensare che ci devi tornare domani, a meno che ovviamente non ti piaccia il lavoro che fai. Se così non fosse vuoi solo una via di fuga, viaggiare. È quello che d’altronde provo a fare per me stesso, forse sembrerà egoista ma penso che se funziona su di me allora potrò aspettarmi che funzioni anche sugli altri.
Un’altra caratteristica della tua musica è di essere senza tempo, è una musica che funzionava nel XX secolo ma che continua a funzionare egregiamente anche oggi, forse perché sembra essere così personale. Come sei arrivato alla conclusione che era proprio quello il tipo di musica che volevi suonare, che in un certo senso era quella fatta per te?
Sì beh penso sia una bella domanda, credo sia un processo più inconscio che voluto. Quando mi siedo a suonare e a scrivere, è proprio la necessità di quella cosa, quel pezzo e sensazione che nasce sul momento che sovrasta tutto quanto, non sto lì ad angustiarmi se sia considerabile “moderna” o no. Ad esempio sono un grande fan dell’ hip-hop, lo sono sempre stato fin da quando avevo all’incirca undici anni, perché quella per me è la faccia più moderna della musica (quella elettronica) che si mescola alla più antica, è semplicemente blues moderno, in un certo senso. Penso sia questo il modo in cui sono arrivato a fare questa musica che in un certo senso non riusciresti a dire da dove venga, la lascio fluire naturalmente, non sto mai provando a scrivere qualcosa. Effettivamente non sto veramente mai provando a scrivere una canzone, se una cosa non mi viene naturale allora non sono interessato, penso che forzare la musica a comparire sia un traguardo che non può essere raggiunto.
Ho molti dischi che nascono semplicemente dallo stare in studio a suonare. Lascia semplicemente che le cose accadano, se una cosa mi e ti da la giusta sensazione allora è ok, ad esempio ho anche diverse canzoni che potrebbero essere definite più “moderne” come Snake Man che è praticamente una canzone hip-hop, con una drum machine etc.: questo semplicemente perché lo richiedeva la canzone, è come doveva essere. Questo è il mio approccio, nella canzone ci metto tutto quello di cui penso abbia bisogno, senza stare a pensare ai concetti di moderno o passato.
Se dovessi indicare dei passaggi chiave nella tua vita e crescita musicale, quali sarebbero?
Il primo momento, quello fondamentale, è stato quando da bambino sentii l’album House of the Blues di John Lee Hooker. Ero veramente giovane e c’è qualcosa in quel sound che quando sei così piccolo è quasi pauroso, terrificante per certi versi, ma in un modo del tutto positivo perché sai che non è una brutta cosa ma che semplicemente appartiene al mondo degli adulti, e nemmeno adulti come i tuoi genitori, ma adulti che sembrano essere del tutto diversi da loro, con esperienze di vita diverse. Quello è stato un momento veramente fondamentale. Poi, come ti dicevo prima, il secondo è stato quando ho sentito per la prima volta la musica elettronica e l’hip-hop newyorkese, ricordo che i primi album del genere erano delle compilation, roba contenente cose come Grandmaster Flash. Dopo questo secondo e altrettanto fondamentale momento c’è stato un vuoto, all’incirca durante l’adolescenza, ero un teenager e forse stupido, e sentivo parecchio gli Small Faces e cose del genere. Poi però, all’incirca quando avevo 18 anni, accadde qualcosa, mi riconnessi ad Hendrix, avevo la cassetta di Electric Ladyland e la ascoltavo tutto il tempo. All’epoca già suonavo degli strumenti, soprattutto l’armonica a bocca, ma ero piuttosto naive e non sapevo nulla di effetti per chitarra, così non potevo credere a quello che sentivo, era pazzesco e mi influenzò profondamente. Poi verso i vent’anni lasciai Londra e per un anno andai a vivere in Asia e lì l’ascolto della musica passò in secondo piano a favore del puro suonare tutti i giorni, una cosa che cambiò completamente la mia vita, suonare tutte le notti in un bar, quindi parliamo di all’incirca 350 concerti, se contiamo che a volte erano più di uno nella stessa sera arriviamo praticamente a 500 esibizioni in circa un anno o giù di lì. Mutò veramente il mio intero universo.
Una volta tornato da lì un altro importantissimo momento fu la mia completa immersione nel solo Jazz, approfondii molto Coltrane e Miles Davis. Del primo in particolare gli album in quartetto, molte persone lo preferiscono da quando cominciò a suonare più “free”, ma il primo Coltrane è veramente essenziale nella mia vita, nonostante anche il suo album postumo Stellar Region sia fondamentale per me. Di Miles Davis invece mi viene in mente On The Corner, quest’album insieme alla canzone di Eric Dolphy, Status Seeking, che mi cambiò la vita, mi face desiderare di nuovo di suonare all’interno di una band. Infine l’album Jazz probabilmente più importante di tutti per me, The Inflated Tear di Roland Kirk, che mi ha avvicinato allo studio del clarinetto e dei vari tipi di sassofoni.
Mi sembra di capire che la musica afroamericana ha giocato un ruolo più che fondamentale nella tua crescita musicale e che suoni parecchi strumenti, sei autodidatta o hai frequentato dei corsi di qualche tipo?
Sì sicuramente è stata vitale, inoltre se guardi alla musica afroamericana con l’occhio di uno “scienziato”, di uno studioso, noterai che tutta quella musica affonda le sue origini nelle più grandi ingiustizie e nel dolore più terribile, da persone trattate d’inferno, come animali, ma che comunque riuscivano a tirare fuori quella musica!
Penso di suonare abbastanza bene i vari tipi di chitarra, che sia acustica elettrica etc, il clarinetto, diversi sassofoni, il pianoforte, la batteria, il violino e con un pochino di pratica prima anche il sitar. Da bambino mi insegnarono a suonare un po’ il pianoforte, mentre per tutti gli altri ho fatto da solo, sono autodidatta.
Parlando di cose attuali, quali sono le tue aspettative per il tour di “Garden Of Ashes”, in particolare per le date Italiane?
Beh spero che venga qualcuno! A parte gli scherzi sono veramente eccitato all’idea, ed ho in serbo una cosa tutta speciale per l’Italia, che non accadrà in nessun altro momento del tour. Ho con me gli Smoke Fairies, loro cantano sull’album ed io adoro la loro musica, così ci apriranno i concerti oltre a cantare qualche canzone con me ed il mio batterista, Paul May, sono veramente entusiasta all’idea. Amo viaggiare in Italia, abbiamo un ottimo autista e non vedo l’ora di suonare nelle vostre meravigliose città e cittadine.
Quali sono i tuoi progetti futuri, a parte il tour ovviamente, stai già lavorando su qualcosa di nuovo?
Sì ho già cominciato a lavorare su un paio di nuovi progetti. Il primo è di registrare un album del tutto acustico in una location che deve essere “speciale”, solo chitarra e voce, in presa diretta ed in una sola take, quasi come fosse un live. Oltre a questo ho anche una sorta di nuova band, in realtà sono musicisti con cui ho già lavorato in passato ma abbiamo trovato una nuova energia, un suono molto primordiale e bellissimo, insomma non so ancora che direzione prenderà ma sarà un nuovo progetto con un suono pesante e specifico, sono molto eccitato all’idea.
Beh Duke che dire, grazie infinite per il tuo tempo, è stato un vero piacere, buona fortuna per tutto e tanti saluti!
Grazie a te man, è stato un piacere, un saluto ai lettori e a tutti i fans italiani dico, “see you on the road!”