Duke Garwood – Garden of Ashes

Per noi amanti di Mark Lanegan, Duke Garwood vince facile. Mescolate il tutto con un po’ di Nick Cave e allora il delitto di Garden of Ashes sarà perfetto. Se avete già capito di cosa stiamo parlando la recensione potrebbe anche chiudersi qui, siete già capaci di intuire da soli se Garwood fa o meno al caso vostro, se potete dargli un chance d’ascolto e lasciarvi trasportare dalle sue atmosfere tenebrose, oppure non ne siete per niente affascinati. Vi basti saper rispondere a questa domanda: vi piace Lanegan? e dei cattivi semi di Nick Cave che ne pensate?

Duke Garwood è un perfetto seme cattivo. Si vede già dalla copertina dell’album, è un’attutine, un senso dello stare al mondo, che miracolosamente non evapora quando attacchi a sentirlo. Aveva già collaborato con Lanegan ai tempi di Black Pudding, e quando Mark sceglie un collaboratore non lo fa mai a caso, c’è da fidarsi (Isobel Campbell vi dice qualcosa?). Non ci stupisce che tra i credit di ringraziamento del disco di Garwood ci sia proprio lui, “my soul brother Mark Lanegan for his friendship and inspiration“.

Duke parte subito con l’acceleratore e questo magnifico pezzo, il singolo che ha anticipato l’album, Coldblooded. Rude, diritto, il musicista inglese ci fa capire subito di cosa stiamo parlando [cosa stiamo sentendo, dovremmo dire]. Sonny Boggie è un classico blues rock, in cui la chitarra si lascia andare al tormento dell’invocazione di Garwood. Sullo stesso stile Blue, accompagnata da cori che hanno il merito di incastrarsi alla voce roca di Duke.

È Sing to the Sky il pezzo più caveniano di tutti, c’è solo una differenza: se Cave è un compositore da pianoforte, il multi-strumentista Garwood preferisce nettamente la chitarra. E così quello che potrebbe essere benissimo un pezzo uscito da un vecchio disco di Cave è diverso solo perché in sottofondo manca il pianoforte, stilema riconoscibile del cantautore australiano.

Ma sono tanti i reminder che ci vengono in mente ascoltando Garden of Ashes. Una cupezza coheniana, un minimalismo da indie folk alla Smog e Bonnie Prince Billy, un’oscurità che torna decisa a colpire per tutto il disco. La chiusura di Coldblooded The Return è un cerchio perfetto, 11 tracce di agghiacciante freddezza che riscalda. Va a finire che questo uomo dal sangue freddo riesca a cacciar fuori tutte le carte esatte per incantarci.

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