Marina Cvetaeva, nata l’8 ottobre del 1892 a Mosca, morta suicida il 31 agosto del 1941 a Elabuga, poeta dalla voce unica, anima notturna e abbagliante, appassionata e metafisica. Che scriva d’Insonnia, d’emigrazione in terra straniera, o che componga versi per Blok, la poeta russa fa sprigionare la lingua anche incontrando un sorbo – tra una lettera a Rilke e Natalie Clifford Barney, un ricordo di Sof’ja Gollidej, e parole riemerse dalla giovinezza. Il più grande poeta del Novecento, disse una volta Brodskij; nemmeno sapevo d’esser poeta, scriveva lei nei quaderni giovanili. Ma sempre si lascerà trascinare dal suono del verso: mentre la vita scorre, Marina Cvetaeva non abbandonerà mai la poesia. Nello sterminato paese dell’anima canterà eclissi di poeti, sogni infranti, amori e notti babeliche. Leggiamo due delle sue poesie.
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Un mondiale nomadismo è cominciato nel buio:
sono gli alberi che vagano sulla terra notturna.
Sono i grappoli che fermentano in vino dorato,
sono le stelle che di casa in casa peregrinano,
sono i fiumi che il cammino cominciano a ritroso!
E io ho voglia di venire da te sul petto – a dormire.
A te – fra cento anni
A te, che dovevi esser nato
un secolo dopo, quando avrò ripreso fiato –
dal sottosuolo, come un condannato a morte,
con la mia mano – scriverò:
Amico! Non cercarmi! Altra moda!
Di me non si ricordano nemmeno i vegliardi.
Con la bocca non ci si tocca! Oltre le acque del Lete
protendo due mani.
Come due roghi io vedo i tuoi occhi,
fiammeggianti verso di me, nella tomba, nell’inferno.
Quella, vedenti, che non muove neanche una mano,
morta cento anni fa.
Con me, nella mano, quasi una manciata di polvere:
le mie poesie! Vedo: al vento
tu cerchi la casa dove io sono nata – oppure
in cui morirò.
Le donne che ti vengono incontro, quelle, le vive, le felici –
io sono fiera di come le guardi, e colgo le parole:
“Assembramento d’usurpatrici! Siete tutte morte voi!
Lei sola è viva!
Io l’ho servita in volontario servizio,
tutti i segreti conoscevo, tutto il fondaco dei suoi anelli!
Saccheggiatrici di defunte! Questi anelli
sono rubati a lei!”
Oh, i miei cento anelli! Mi si tirano le vene,
per la prima volta mi pento
che tanti a destra e a manca ne ho regalati –
non ti avevo aspettato!
E ancora mi fa tristezza che in questa sera
d’oggi così lungamente io sia andata dietro
al sole che tramontava – e incontro
a te: attraverso cento anni.
Scommetto che tu scagli una maledizione
ai miei amici, verso la caligine delle tombe:
“Tutti la lodavate! Ma un abito rosa
nessuno le ha regalato!
Chi era più disinteressato?!” No, io la cupida!
Già che non mi ucciderai, non c’è avidità da nascondere,
che a tutti io chiedevo le lettere
per baciarle di notte.
Dirlo? – Lo dirò! Il non essere è una convenzione.
Tu per me adesso sei il più appassionato degli ospiti
e tu rifiuterai la perla di tutte le amanti
in nome di quella – delle ossa.
Tradotti da Pietro Zveteremich