Drive my car e il dialogo tra cinema e teatro

Nel film Drive my car, diretto dal regista giapponese Ryūsuke Hamaguchi, l’omonimo racconto di Murakami si dilata in una pellicola di 179 minuti, scandita dalle intermittenze del testo dello Zio Vanja di Anton Čechov. Se per lo scrittore russo la brevità è la sorella del talento, Hamaguchi espande il tempo del suo racconto cinematografico all’eccesso e senza nessuna pietà per la brevità, con il risultato di una immersione nella vita e i pensieri dell’attore e regista teatrale Yūsuke Kafuku alle prese con la messa in scena di un adattamento dello Zio Vanja per il teatro di Hiroshima. Nel corso delle tre ore del film si viene a creare un continuo dialogo tra la pellicola di Hamaguchi e l’opera di Čechov, la sentiamo sussultare attraverso le battute degli attori, o la voce registrata su una cassetta dalla moglie scomparsa di Kafuku, che parla come la voce di un fantasma indimenticato. Sono continue le sovrapposizioni, sterminati i rimandi, e in questo persistente gioco di sottotesti, proprio come a teatro, Drive my car riesce a far rivivere il testo di Čechov e contemporaneamente a raccontare una storia originale che si fa viva di per sé.

Hamaguchi e il suo protagonista Kafuku tengono al centro della scena l’assoluta modernità di Čechov – qualunque sia il senso che diamo alla parola modernità –, la bellezza del suo teatro di umanità, il fatto che un testo come Zio Vanja non passi mai di moda nel parlare all’uomo e alla donna di ogni tempo e epoca. Scritto alla fine dell’Ottocento, Zio Vanja racconta “scene di vita di campagna in quattro atti”, è un testo breve e potente che culmina nel monologo finale di Sonja. È lei a trovare le parole per dare la forza di continuare a vivere allo zio Vanja e a se stessa nel finale del dramma:

“Che fare? Bisogna vivere! Noi vivremo, zio Vanja. Vivremo una lunga sequela di giorni, di interminabili sere. Sopporteremo pazientemente le prove che ci manderà la sorte. E quando verrà la nostra ora, moriremo con rassegnazione e là, oltre la tomba, diremo che abbiamo patito, pianto, sofferto amarezza.”

Il teatro di Kafuku cerca la sua originalità e universalità nel suo essere multilingua: gli attori parlano lingue diverse, quasi a volere oltrepassare ogni barriera linguistica presente nella recitazione di un testo. Per la parte di Sonja, Kafuku sceglierà un’attrice che si esprime con la lingua dei segni sudcoreana, una scelta originale perché il monologo di Sonja è tra le parti più importanti del testo, eppure la scelta di visualizzare il monologo attraverso la lingua di segni è una delle scene più belle e poetiche dell’intero film. Vediamo le parole salire con forza dal segno e dal gesto alle spalle di Kafuku/Vanja.

Il personaggio di Sonja viene rievocato anche attraverso l’altra protagonista, la silenziosa autista Misaki Watari, la cui vicenda fa da controcanto a quella di Kafuku. Come due anime spezzate dal dolore e dalla perdita di una persona cara, Kafuku e Watari mandano avanti le giornate – a bordo della leggendaria macchina rossa del regista – come una “lunga sequela di giorni e interminabili sere”. Nel ritrovarsi delle due solitudini il regista sembra suggerire ancora una forte identificazione di Kafuku con il personaggio di Vanja, ma se Vanja si sentiva tradito e sacrificato sull’altare dell’odiato Professore, il tradimento e il lutto che tortura Kafuku è quello della moglie. Tra Kafuku e Vanja ci sono delle naturali sfumature di differenze. Čechov manteneva viva la vena comica dei suoi personaggi: Sonja, Elena, Astrov, Vanja, sono complessi nella loro involontaria comicità, nel loro esporsi così poco, e nel breve tempo in cui abbiamo a che fare con loro sulla scena. In Drive my car non c’è la complicata e leggera malinconia di Elena, non ci sono i visionari discorsi sulla deforestazione e il climate change del dottor Astrov, non c’è sapore di vodka e samovar, il tempo dilatato e frammentario del film a volte potrebbe disorientare, altre rischiare la retorica dell’eccesso di storie e sottotrame per la troppa carne messa sul fuoco. Poi d’improvviso con una immagine si riprende tutto, la visione rimette insieme i frammenti e restituisce un film bello, stratificato, profondo, che dalle strade del Giappone dialoga con il mondo intero, supera le barriere della lingua, del tempo e dello spazio, riacquietando i nostri moti interiori, sussulti di vita, brancolii di amarezze. E per un attimo si ha l’illusione che Yūsuke Kafuku con il suo teatro sia riuscito a rievocare l’universalità di Anton Čechov, la capacità dello scrittore-medico di parlare alle profondità dei cuori di uomini e donne. Stratificando racconti diversi, con la forza visiva del suo film Hamaguchi ha creato una storia che si fa viva di per sé e parla come un coro di voci.

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