“You guys know how to party, as if you had free health care” – St. Vincent al Down The Rabbit Hole
Se c’è una cosa che gli olandesi sanno fare davvero bene è organizzare festival. Hanno le risorse, i contatti e una logistica impressionante tali da far sembrare anche una festa di paese in un evento alla Eurovision. Nel caso del Down The Rabbit Hole (DTRH), si tratta di una vera e propria esperienza olandese: uno studio antropologico ravvicinato di questo popolo nordeuropeo di cui in Italia non conosciamo tutte le sfumature, anzi di solito lo idealizziamo fin troppo nel bene e nel male.
Down the Rabbit Hole
Il Down The Rabbit Hole nasce nel 2014 come “figlia” di Lowlands, un altro festival made in Netherlands che ogni anno figura tra i dieci migliori major festival agli European Festival Awards. Se il Lowlands ha una storia pluridecennale che conta ogni anno più di 50,000 partecipanti per oltre 200 concerti su 10 stage in 3 giorni ad agosto, DTRH è più – se possiamo dire così – “locale”. Entrambi i festival sono organizzati da Mojo – il più noto promoter di concerti nei Paesi Bassi dal 1968 – e sponsorizzati da Heineken. Entrambi hanno line-up internazionali che spaziano tra i generi di pop, rock, dance, techno, hip hop e tutto ciò che passa in mezzo; Pink Floyd, Jeff Buckley, Kendrick Lamar sono solo alcuni dei big che hanno suonato sui palchi di Lowlands, per intenderci.
DTRH è la versione più “alternative”, più intima e meno mainstream, più piccola in dimensioni e con una audience meno internazionale. Olandesi di tutte le età si organizzano in gruppi da dieci tra amici e parenti per andare in campeggio tre giorni sui larghi campi verdi di Groene Heuvels (una sorta di Gardaland per adulti) – vicino al piccolo villaggio di Ewijk, a sud dei Paesi Bassi – ascoltare buona musica, fare nuove amicizie, nuotare nel lago, ballare e mostrare il loro lato più psichedelico. Una sorta di “team building nazionale”, aiutato da musica, droghe e tanti costumi diversi. È davvero un’occasione unica di vederli in una veste diversa, più amichevole (anche se probabilmente influenzata da sostanze) e più rilassata, meno socialmente impacciata rispetto alla vita di tutti i giorni.
Il concept di DTRH è chiaramente ispirato a Alice in Wonderland e non fallisce nella missione di regalare ai suoi partecipanti un trip di tre giorni in un paradiso tra le foreste, con falò, nightclubs, jukebox giamaicani, con sessioni di yoga al mattino, workshop di serigrafia nel pomeriggio, e rave hardcore alla sera.
I coniglietti – come sono chiamati i presenti al festival – hanno una vasta scelta tra ristoranti di ogni tipo, bar, stand di dischi, trucchi e costumi psichedelici, vintage, attrezzature da campeggio per ogni evenienza, merchandising del festival; il biglietto di € 210 vale tre giorni – non è possibile acquistare per un giorno solo, è una full experience – include il campeggio, bagni, docce (a pagamento), ed è difficilmente reperibile sulle piattaforme di rivendita come Ticketswap. La macchina del business è ben organizzata e include il sistema di pagamento a gettoni: all’interno del festival non puoi pagare con cash o carta ma devi acquistare i gettoni (minimo 5 per € 16,50), un modo intelligente per farti pagare un caffè un gettone (ovvero € 3,30!) e pensare che non sia poi così costoso. C’è da aggiungere che è possibile introdurre nel campeggio fino a 8 litri di liquidi (incluso alcol) e non è raro vedere arrivare dal giovedì prima orde di persone cariche di carriole con cibo, birre e tutto l’occorrente per dei barbecue all’altezza della situazione.
Per chi invece cerca più confort ad un prezzo maggiore, è possibile prenotare delle tende più attrezzate nel Rabbit Resort. Il festival è decisamente accessibile anche a persone con disabilità a cui è riservato uno spazio più ampio per il campeggio. Inoltre, in diversi punti dell’area festival è possibile ricaricare il cellulare (importantissimo per le stories su IG) da stazioni ricaricate con pannelli solari e fonti rinnovabili. Ci sono diversi giovani olandesi volontari, staff della sicurezza e operatori per le pulizie che mantengono il festival abbastanza pulito e se riesci a tornare a casa senza UTI puoi considerarlo un successo.
I concerti
Ma veniamo alla parte più importante: la musica. La line-up di quest’anno è molto eterogenea e simile a quella di Glastonbury, che si è tenuto solo il weekend precedente. Sui tre palchi nominati come le tre razze di coniglio – Hotot, Fuzzy Lop e Teddy Widder – si sono alternati: i nomi mainstream – Gorillaz, War on Drugs, Erykah Badu; i nomi indie – Haim, St. Vincent, Phoebe Bridges; i nomi dell’elettronica – Moderat, Bicep, Disclosure, e tanti (ma tanti) altri.
Questa edizione, come per tutti i festival dopo il Covid, era molto attesa dal 2020 e gli organizzatori Mojo hanno pensato bene di far entrare il 20% di persone in più: 45,000 coniglietti hanno invaso i campi quest’anno. Dopo due anni di stop, c’è molto da recuperare in termini di risorse e non è escluso che si voglia far crescere il nome del DTRH anche a livello internazionale come Lowlands (non è un caso che sia stato concesso a L’Indiependente di accedere come stampa). Molto probabilmente questa è stata l’ultima edizione per i soli olandesi.
Tra i nostri show preferiti ci sono sicuramente L’Impératrice, che hanno inaugurato venerdì pomeriggio con un’ora incandescente di elettro-pop francese, salvati dal Covid dopo aver rimpiazzato last-minute con Romain il bassista David contagiato. Meno fortunati di loro, sono stati gli Sleaford Mods e Kae Tempest che hanno dovuto rinunciare a suonare dopo essere stati presi dal virus.
Le Haim, la nuova rock band al femminile del momento, che si gode la fama e scimmiotta le vecchie rockstar del passato (Led Zeppelin, Rolling Stones) ma con le vibes di Hannah Montana. Dopo la prima canzone, si sono messe a fare apprezzamenti sul pubblico e su quanto fosse sexy giurando che non lo fanno a tutti i concerti.
Two Door Cinema Club e Disclosure hanno suonato sul grande palco, Hotot, provvisti di visuals super fighe. Wilco invece ci è sembrato stanco di vivere o di suonare, poco incisivo e più riservato alle fasce d’età più avanzate. Una piacevolissima scoperta è stata Priya Ragu, cantante svizzera-tamil con uno stile molto pop ma anche peculiare.
Sabato è stato una giornata molto intensa perché abbiamo visto in fila Celeste, Little Simz, The Smile, Moderat e Gorillaz. Celeste è stata celestiale, ha fermato il tempo con la sua voce soul e la sua orchestra; Little Simz ha incendiato il palco di Teddy Widder e si è riconfermata la vera erede di Lauryn Hill, anzi possiamo dire che Lauryn Hill dovrebbe già darle la corona come nuova regina dell’Hip Hop. The Smile hanno accompagnato il tramonto, con un Thom Yorke sorprendentemente preso bene (con un po’ di panzetta in più) perché ormai ha raggiunto quel livello in cui può suonare quello che vuole e i suoi fan lo adoreranno lo stesso. I Moderat erano in versione ridotta, duo invece che trio, sempre per colpa del Covid ma hanno saputo tenere lo stage anche grazie al supporto di luci e visuals.
E poi gli headliner, i Gorillaz, hanno riunito tutti i coniglietti sotto il palco principale di Hotot: c’erano tutte le età ed è stato bello vedere anche i ragazzini quindicenni olandesi, ubriachi e a torso nudo, cantare a squarciagola TUTTE le canzoni a memoria e pogare felicemente. Damon Albarn, già ospite del DTRH nella prima edizione del 2014, era scatenato: si sa che i Gorillaz sono lo sfogo musicale con cui tira fuori la sua parte più primitiva, fanciullesca, animale. Si vede che è un professionista in cui riesce a dare spettacolo: si è buttato sul pubblico, si è travestito da santone, ha simulato una performance sessuale durante il twerking di Moonchild Sanelly, è riuscito – anche grazie a Fatoumata Diawara, una nostra vecchia conoscenza – a far cantare Désolé agli olandesi. I Gorillaz hanno cantato tutte le loro canzoni storiche – Feel Good Inc, Clint Eastwood, Kids with guns, El Mañana – in un throwback agli anni zero molto emozionante grazie anche alle loro controparti animate proiettate sugli schermi.
Tra le performance più interessanti segnaliamo anche Easy Life, Goldband e Phoebe Bridges, che ormai è osannata come Indie Rock hero. Un posto che in passato apparteneva a St. Vincent, anche lei al DTRH più in versione LGBTQ+ Guitar Hero ora, ma con uno show molto più scarso (purtroppo) dovuto forse a qualche problema tecnico.
Il ritorno dal DTRH alla realtà quotidiana è abbastanza traumatico: si ha la sensazione di aver sognato tutto, di essere caduti appunto in un buco inseguendo un coniglio in ritardo e di essere usciti da un labirinto dopo varie avventure allucinanti. Si risale su rigenerati e come nuovi, pronti per una settimana di ordinaria follia, alla quale ci siamo abituati in questi tempi che corrono. E che privilegio sapere che, nonostante tutto, possiamo ancora viverci i festival in estate.
Tutte le foto sono a cura di Enrica Falco