Pochi fenomeni culturali – e parlare di genere musicale sarebbe riduttivo, se non improprio – hanno avuto una genesi e uno sviluppo complicato quanto l’Hip Hop. Proprio come il sampling, il campionamento, che ne è il marchio di fabbrica, l’iconografia di questo mondo si è costruita nel tempo, per stratificazioni sonore e non: l’emarginazione sociale made in America unita all’orgoglio afro di Fela Kuti, l’ostentato machismo della Blaxploitation con l’ambiguità sessuale di Prince, l’asprezza del funk sovrapposta al lirismo pacchiano della disco music, la retorica di Bruce Lee a imbastardire quella di Malcolm X.
C’è un Mondo, là dentro. E come ogni pianeta che si rispetti, le contraddizioni che ne costituiscono le fondamenta hanno impiegato anni ad amalgamarsi tra loro, a trovare una coerenza, un modo per convivere in pace. Se volete godervi il risultato finale, lasciate perdere questo pezzo e date un’occhiata a Big Fun In The Big Town, un documentario olandese(?) che è la migliore introduzione possibile all’epopea di Grandmaster Flash e dei suoi seguaci. Ciò che troverete qui è, invece, la strada più lunga, che attraversa un libro (Uomo invisibile), un documentario (What happened, Miss. Simone?) e una serie tv (The get down). Niente pausa-sigaretta, mi dispiace. Queste tre opere, così diverse tra loro per stile e profondità, sembrano però formare, insieme, un’(inconsapevole) guida per chi volesse comprendere quali eventi, ma soprattutto quali sentimenti, hanno portato alla nascita della doppia H in quegli anni, a New York, nel Bronx.
1. L’abbandono. Uomo invisibile – Ralph Waldo Ellison (1952)
La metropoli è il punto d’arrivo, il (non-)luogo in cui dall’unione tra la totalità della massa e il nulla dell’anonimato nasce sempre qualcosa. Spesso, però, bisogna arrivarci da un punto lontano, totalmente opposto, per capirne l’essenza.
È questo il caso del protagonista senza identità del romanzo di Ellison, spedito a New York dal Sud dell’America, informalmente schiavista, per aver rivelato la condizione dei propri concittadini ad un facoltoso (e ovviamente bianco) finanziatore del suo college. Dopo aver sperato, invano, di trovare il proprio posto nella società (ovviamente bianca) dal suo interno, obbedendo alle due regole auree dell’american dream – duro lavoro, che non gli rimedierà altro che un elettroshock, e rispetto delle istituzioni, qualunque esse siano – l’Uomo Invisibile sembra trovare finalmente la sua strada all’interno delle meccaniche marxiste della Confraternita afroamericana di Harlem. Ancora una volta, però, si tratta di una tragica illusione: nella comunità che dovrebbe difenderlo dai soprusi della società bianca, trova alla fine una nuova prigione, ancora più oppressiva. Perché è stato lui stesso a costruirla, stavolta. La comunità che accoglie con tanto entusiasmo i suoi sermoni lo fa per ciò che raccontano o per il colore della pelle di chi li pronuncia? Se al Sud la sua identità coincideva con l’essere nero, arrivato a New York, il protagonista di Ellison si trova di fronte ad un dilemma nuovo: capire come poter essere sé stesso, pur essendo afroamericano. La via, drastica, che sceglie di seguire è scomparire completamente dalla società, nascondendosi tra le case in fiamme di Harlem. Ma non abbandonandole.
“Io sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro, come quelli che ossessionavano Edgar Allan Poe; e non sono neppure uno di quegli ectoplasmi dei film di Hollywood. Sono un uomo che ha consistenza, di carne ed ossa, fibre e umori, e si può persino dire che posseggo un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito?”
E quelle dell’Hip Hop sono state spesso voci di uomini invisibili, sfiduciati, sia nei confronti della società “politica”, che li ha regolarmente traditi, arrivando persino ad assassinare i suoi leader, così come della propria comunità, che con il movimento underground ha sempre avuto un rapporto ambiguo, di attrazione e repulsione. L’Uomo Invisibile dell’HH, erede dei bluesmen e dei beboppers, racconta cosa significa essere soverchiato dal peso della propria identità, con cui deve fare i conti, molto spesso, da solo e contro tutto ciò che lo circonda.
“Io non sono mai stato odiato di più di quando ho cercato di essere onesto.” – Ralph Waldo Ellison, 1952
“That’s as blunt as it gets, I know you hate me, don’t you?” – Kendrick Lamar, 2014
2. L’orgoglio. What Happened Miss. Simone? – Liz Garbus (2015)
Cosa è rimasto, oggi, della storia di Nina Simone, e di quella del movimento per i diritti civili, di cui era simbolo e leader, nelle nuove voci della comunità afroamericana? In apparenza, davvero poco. L’Hip Hop, la più accreditata, comunitaria, o quantomeno viscerale, manifestazione della cultura black, è ormai ridotta ad un tripudio di sessismo e banalità: i suoi sacerdoti intenti a ricercare l’uguaglianza razziale più nella materia che nello spirito, donne, auto, soldi, armi. Questo il luogo comune che si è venuto ad accumulare, rima dopo rima, nel corso degli ultimi vent’anni, frutto della deliberata quanto efficace demonizzazione teo-con, perpetrata con inaudita veemenza ai tempi di Rodney, nonché di un effettiva carenza di contenuti. Come sempre, però, lo stereotipo contiene una porzione di verità, la più appariscente, celandone allo stesso tempo un’altra. L’“altra” verità, in questo caso, è che una minoranza non così sparuta di artisti, il cosiddetto left-field Hip Hop, non ha dimenticato la lezione di Simone, l’orgoglio di essere neri e africani, ma, soprattutto, la propria responsabilità di coscienza sociale di una comunità.
L’opera di crew come i Soulquarians (The Roots, D’Angelo, Erykah Badu…), di Common o Mos Def non è infatti meno politica di quella mainstream dell’evergreen Toni Morrison o del nuovo (mediatico) che avanza, come Ta-Neishi Coates, con la sua retorica quanto toccante lettera al figlio. Lavori, questi ultimi, “istituzionali” e cerebrali (e non è sempre un bene), nei contenuti ma, soprattutto, nella forma: il romanzo. Se la lezione di Marshall McLuhan resta però ancora valida, ed è così, allora dove e come quelle parole vengono sputate ha una sua rilevanza. Una pubblicazione sul New Yorker, insomma, piaccia o no, non ha un impatto sociale lontanamente paragonabile a quello di una hit in heavy rotation. “Say it loud: I’m black and I’m proud”, predicava James Brown alle folle: forse il modo più efficace di farlo, nel 2016, è metterle in rima e gridarle. Ma se questa via di fuga esiste ed ha assunto una forma ben definita – la doppia H, appunto – è anche grazie ad artisti come Nina Simone, con la loro musica, politica e poetica, sentimentale e violenta, terrena ed eterea, come ogni opera Hip Hop degna di questo nome deve essere. Affondata nella realtà, insomma.
E la storia di Nina Simone è stata appunto inscindibile da quella della propria comunità. Bambina che sognava di diventare la prima pianista classica di colore, ragazza attivista e fiera delle proprie radici poi, donna sfiancata dalle tante battaglie, negli ultimi anni della sua carriera. Ricerca di accettazione, consapevolezza folgorante e amara rassegnazione: tre sentimenti che la comunità afroamericana ha vissuto, eccome, sulla propria pelle nel corso della storia. Il biopic di Liz Garbus, What happened Miss. Simone?, distribuito da Netflix, riesce a raccontare, senza retorica, gli alti e i bassi di una donna che viveva nella realtà, e che da essa veniva continuamente influenzata in ciò che scriveva e cantava, arrivando ad esserne quasi distrutta.
You don’t have to live next to me
Just give me my equality
Everybody knows about Mississippi
Everybody knows about Alabama
Everybody knows about Mississippi Goddam
Mississippi Goddam, dannato Mississippi. Nessuno prima di lei aveva avuto il coraggio di gridarlo in faccia a quelli che benpensavano nell’America degli anni ’60. E per il suo coraggio Nina Simone pagherà un prezzo altissimo, mettendo da parte, esclusa da tutte le radio del paese, le proprie ambizioni di successo, così come la relazione con il proprio marito-manager, che alla via dell’impegno politico avrebbe preferito per lei quella della diva jazz, e, infine, esasperando i tratti bipolari che la caratterizzavano.
Nina Simone non credeva nella non-violenza, ma aveva scelto comunque di affidarsi alla guida convintamente pacifista di Martin Luther King. E il suo assassinio a Dallas segnerà uno spartiacque definitivo nella storia della comunità black – la fine della grande speranza nell’attivismo politico come strumento di liberazione – così come nella vita della cantante, portandola, sempre più instabile e disillusa, a riallacciare i legami con la madre Africa e a ripiegare in Europa, lontana dai suoi demoni.
Folks you’d better stop and think.
Everybody knows we’re on the brink.
What will happen, now that the King is dead?
We can all shed tears; it won’t change a thing.
3. L’immaginario. The Get Down – Baz Luhrman (2016)
L’Hip-Hop è linguaggio, visione, movimento ma, prima di tutto, una realtà culturale a 360 gradi, fondata sul suono. In molti hanno provato a raccontarne l’essenza, con autobiografie (Eight Mile), documentari (Hip-Hop evolution) e risultati più o meno convincenti. L’ultimo in ordine di tempo a tentare questa impresa è stato Baz Luhrman, dispensatore seriale di cinematografia bombastica, sopra le righe, da Romeo+Juliet al Grande Gatsby.
La sfida di fronte a Luhrman era titanica. Secondo solo all’epopea rock’n’roll costruita nel giro di trenta anni da Scorsese e dalla New Hollywood, che hanno fondato il proprio stile sulla presenza invadente della musica sullo schermo, l’Hip-Hop è infatti da sempre intrinsicamente collegato alle arti figurative, su tutte il cinema. Da Spike Lee a Keith Haring, si tratta forse dell’ultima vera espressione di “pensiero forte” del nostro tempo, l’ultimo fenomeno totalizzante e coinvolgente a travolgere la società occidentale con una propria autonomia, in termini culturali, estetici e politici. Eppure sembra ancora mancare a questo mondo un mito fondativo, un’opera che visivamente racconti l’epopea delle origini, idealizzando i pionieri, distinguendo tra buoni e cattivi, insomma trasmettendo i canoni estetici (e non) di questo stile ai profani. Troppo astratta l’arte di Basquiat per arrivare alle masse, troppo immerso il cinema di Spike Lee per avere la visione d’insieme necessaria a pre-confezionare un’epica dell’Hip-Hop. Forse per l’individualismo e l’anarchia dei suoi cantori, tanto propensi al featuring quanto al dissing, o per la polarizzazione tra le due coste americane, o per il velato razzismo della cristallina Hollywood, sta di fatto che alla doppia H mancava un suo Alta Fedeltà, o, quantomeno, uno School of Rock. Un film, insomma, che mettesse nero su bianco i canoni universali del genere, costruendo una storia che fosse ambientata nei suoi cliché.
Il primo, consapevole tentativo dell’HH di guardarsi alle spalle è arrivato soltanto nel 2015, con Straight Outta Compton. Nei 147(!) minuti che il regista Gary Gray si prende per raccontare la storia degli N.W.A., l’Hip-Hop trova il proprio martire in Eazy-E, il più classico dei villain in Suge Knight, gli eroi senza macchia in Ice Cube e Dr. Dre, che supervisionano il progetto, e la propria Mecca sulla West Coast in Compton, da cui sarebbe poi esploso Kendrick Lamar. Due restano però i nodi irrisolti, tra loro strettamente collegati, che non possono renderlo il testo sacro del genere. In primis, si tratta di un film biografico, e, pertanto, l’attenzione non si sposta di un millimetro dalla band di cui vuole raccontare le vicende: l’epopea che viene raccontata è quella di Dr. Dre, di chi finanzia il film, punto. Questo ci porta dritti alla seconda questione, quella cruciale: gli N.W.A. si muovevano nella nei sobborghi di L.A. di fine anni ’80, quindi non è presente il minimo riferimento a New York e alle origini profonde dell’Hip-Hop.
In The Get Down Baz Luhrman cerca di aggirare il problema affidandosi al più antico dei trucchi: la favola. Glissando sulle pagine più buie – la droga, le armi e il degrado del Bronx – che rimangono sempre sullo sfondo, utili alla creazione di una scenografia cool in cui far muovere i protagonisti. E i protagonisti della sua storia non sono leggende dell’Hip-Hop venute da Compton, ma ingenui, sconosciuti eroi (relativamente) senza macchia all`interno di un mondo ostile, che li vorrebbe corrompere: dal politico affarista senza scrupoli al perbenismo del padre religioso, fino alla criminalità organizzata. Unica via di fuga, i graffiti, lo scratch, il rap, la poesia: l`Hip-Hop insomma, personificato dalla figura quasi mistica di Grandmaster Flash. Ma, in fondo, come accade per tutte le favole, più che al destino dei personaggi, si finisce per guardare alla morale. Nel lungo periodo, questo finisce per penalizzare The Get Down, con i suoi personaggi troppo ostentatamente simbolici, lo storyline col pilota automatico e un certo buonismo patinato che può funzionare con le ballerine del Moulin Rouge, meno se si parla del Bronx degli anni ‘70. La love story tra la figlia di un predicatore che aspira a diventare Diana Ross e un timido outsider che scopre la propria voce grazie all’Hip-Hop può interessare, e relativamente, per qualche ora, non per stagioni intere. Non a caso, la seconda stagione è stata bruscamente cancellata da Netflix.
Tra tutti i difetti, però, Luhrman sembra riuscire a cogliere, per qualche breve istante, la vera forza dell’Hip-Hop: l’essere una comunità che trae linfa dal proprio continuo rimettersi in discussione, dallo scontro tra diverse interpretazioni di una “dottrina”, Afrika Bambataa contro Grandmaster Flash. Una realtà dogmatica, che trova forza nelle proprie regole (rigorosamente non scritte), e, al tempo stesso, anarchica fino al midollo: viva, insomma. Il conflitto tra le varie gang, ingenuamente stilistico e musicale ma spesso gestito, pericolosamente, a mano armata. Quello con la società “civile” capeggiata da Nancy Reagan, impegnata in una guerra dall`alto valore simbolico contro le tag hanno invaso una proprietà che da pubblica era diventata, inavvertitamente, di pochi. Lo scontro con il retroterra religioso del Bronx – proprio come il laico blues aveva dovuto farsi strada tra i gospel – per arrivare a una riconciliazione quasi francescana, diventando canto degli ultimi e degli oppressi. L’opposizione viscerale alla disco music, prima rinnegata per i suoi eccessi, per il suo materialismo ed i suoi templi, inaccessibili alla working class di colore, poi diventata fonte inesauribile di samples e ispirazione. Flash e i suoi seguaci spogliano KC and the Sunshine Band dei loro lustrini, delle sovrastrutture, per ricercare soltanto il get down, il breve intermezzo strumentale capace di far muovere cento, mille culi. Tra Robin Hood e Prometeo, rubano la disco ai ricchi dello Studio 54, la rovesciano da cima a fondo e la portano tra le gang: “Free your mind and your ass will follow”.
Ecco allora spiegato perché nessuno è ancora riuscito a cristallizzare l’Hip-Hop su pellicola: non si tratta né dell’ampiezza geografica dell’impresa, del dover coprire entrambe le coste degli States per raccontare una “semplice” storia, né del razzismo hollywoodiano di cui sopra, o forse, paradossalmente, di entrambi i motivi. Il vero punto è che la doppia H, così come un certo rock, anche mainstream, prima di lei, ha fondato la propria esistenza sula destrutturazione di quel prodotto prefabbricato (leggi: la disco) che le major discografiche propinavano ai ricchi bianchi downtown. American Graffiti e Happy Days sono arrivati negli anni ’80, quando la cultura rockabilly era morta e sepolta, digerita e rigurgitata dal revivalismo degli Stray Cats. Lo stesso vale per The Committments nei ’90 e Almost Famous dieci anni dopo, che hanno segnato la morte cerebrale e la rinascita commerciale – spesso vanno di pari passo – del Soul della Stax e del Classic Rock, rispettivamente. Forse, in fin dei conti, è un bene che non si siano ancora riusciti a trovare la formula magica per cristallizzare l’Hip-Hop in una sfera di vetro per turisti dal futuro. La storia ci insegna che Hollywood è imbattibile quando si tratta di riesumare e dissezionare cadaveri in decomposizione, e un blockbuster sulla doppia H non sarebbe altro che un certificato di morte. Certo, nasceranno altre voci, altri suoni con la stessa carica anarchica, dissacrante e contraddittoria, non c’è da preoccuparsi, ma è sempre un trauma abbandonare i propri cari, soprattutto nelle mani della bianchissima Hollywood Babilonia.