Nel páramo di Sumapaz, un ecosistema freddo e prezioso alle porte di Bogotà, la capitale della Colombia, una giovane docente raccoglie intorno a sé un gruppo di donne del luogo per un laboratorio di scrittura da lei condotto e cercare di riprendersi uno spazio di indipendenza dalla maternità che l’ha sconvolta. Sono l’insegnante e le sue “studentesse” le “Donne nella nebbia”, il romanzo della scrittrice colombiana Laura Acero, in Italia pubblicato da Ventanas Edizioni nella traduzione di Serena Bianchi. Il primo incontro con la protagonista e voce narrante principale avviene proprio durante il viaggio verso il páramo, un lungo peregrinare lungo pieno di posti di blocco del governo, in un panorama per lei sconosciuto.
A chi lo vede per la prima volta, attraverso il finestrino, il páramo si presenta come una terra arida, rocciosa e spoglia, desertica, fino a quando più dentro, ai lati della strada, iniziano a comparire i frailejones argentei, gli arbusti dai fiori gialli,le piante di puia protese, come in cerca di altezza, e rasoterra i fiori viola, violacei e azzurri. Non somiglia a nessun altro paesaggio visto altrove.
Acero sceglie con intelligenza l’ambientazione del suo romanzo breve: Sumapaz è un luogo antico per la sua storia, ma estremamente moderno per criticità. Ogni páramo, territorio tipico degli altopiani tropicali al di sopra dei tremila metri diffusi in Centro America, ma anche nel nord-ovest africano, è minacciato duramente dalla crisi climatica in atto, ma ancora di importanza cruciale per la Colombia, più in particolare per Bogotà nel caso di Sumapaz, perché trattasi dell’unico serbatoio idrico della capitale. Per quanto freddo e inospitale, infatti, il páramo di Sumapaz garantisce l’accumulo idrico con la sua biodiversità in termini di flora. Le frailejones, in particolare, piante grasse presenti solo in questo territorio, hanno una conformazione tale da catturare e trattenere a lungo l’acqua, attività decisamente complessa in condizioni così proibitive, messa in pericolo dallo sfruttamento agricolo dei territori, l’urbanizzazione selvaggia e il riscaldamento globale.
Con “Donne nella nebbia”, però, Acero non racconta solo un territorio cruciale per la sopravvivenza colombiana, ma si carica di un’altra responsabilità, ovvero quella di raccontare le storie delle donne che abitano quel territorio, custodi millenarie di quell’ecosistema, perché a conti fatti gli uomini cosa hanno portato? Agricoltura che mangia i terreni, il conflitto armato colombiano della guerra civile tra governo, guerriglieri delle FARC e narcotrafficanti, nonché una prigione desolata che il dittatore Rojas Pinilla fece costruire ai primi del Novecento per riempirla di prigionieri e nemici politici. La morte e la distruzione che invadono Sumapaz trovano nelle donne l’unica resistenza efficace, ed è con questa resistenza che la voce narrante e protagonista prova a dialogare, ma trovare un canale di comunicazione per una donna di città è un percorso accidentato e ricco di insidie. L’unico appiglio sembrerebbe Adriana, un’altra cittadina che ha preferito il páramo alla sua vita precedente e che funge da ponte con le donne del luogo.
Le storie personali che emergono con le attività del laboratorio di scrittura, però, sono difficili da metabolizzare e complicano l’incarico dell’insegnante che prova, comunque, a leggere loro Virgina Woolf, a proporre tracce di scrittura, ma sarà nel suo momento di debolezza più forte che il romanzo si apre e diventa polifonico, perché a parlare poi saranno anche Adriana, Julia, Flor, Maribel, Blanquita, Marlene e Anadelina, ognuna con pezzi di vita rubata dalla durezza della terra e degli uomini. Le loro storie emergono negli esercizi di scrittura e se in apparenza potrebbero sembrare piccole e insignificanti, si rivelano presto il terreno fertile in cui è cresciuta la storia del paese.
La scrittura quindi è il riflesso della storia, delle storie della campagna e delle piccole cose: guardate quanto può essere bello e semplice cuocere le arepas, mungere le mucche, macinare il granturco e crescere i figli, e fate caso a come queste microstorie, a poco a poco, costruiscono la storia nazionale, quella dei grandi nomi. […] Durante il discorso, o meglio monologo, le donne mi guardano e annuiscono, soprattutto quando ripeto che le loro voci sono al cosa più importante […].
È questa la chiave dell’intero romanzo: restituire alle donne di Sumapaz, fittizie e reali, la dignità della loro storia e Acero lo fa con personaggi tridimensionali, scritti con cura e con il registro narrativo che si adatta alla voce di ognuna di loro. Il messaggio più intimo, eppure sempre più evidente dalla seconda metà del romanzo in poi, è che le donne di Sumapaz, come tutte le donne in un sistema patriarcale, portano sulle spalle un peso quotidiano che schiaccia, un peso fatto di doveri, abusi e responsabilità. Ci sono, però, casi in cui questo peso può essere ridotto e la chiave è solo una: la formazione di piccole comunità, meglio se interamente femminili. La comunità delle donne di Sumapaz che Laura Acero ritrae, allora, è una forma arcaica di salvezza che risuona anche con chi legge svelando verità dolorose incontrovertibili:
«[…] non mi viene in mente una sola donna che non sappia cos’è l’abuso»
dice infatti Anadelina, svelando una verità amara non solo di Sumapaz, ma di qualsiasi altro angolo del mondo. I sistemi patriarcali non sono poi tanto diversi fra loro.