Chi, leggendo un libro, non ha mai tentato di immaginare le fattezze, la voce, il carattere del suo autore? Nel caso di Eminent Hipsters, per metà una raccolta di saggi su uomini (“ispirazioni”) deceduti da anni, per l’altra diario di un tour americano, e del suo autore Donald Fagen (Passaic, NJ, 10 gennaio 1948), ben poco è lasciato all’immaginazione del lettore, vista la chiarezza di chi scrive.
Se da un lato il volto scontroso, l’ironia sottile e raffinata, allo stesso modo della voce, sono fatti acquisiti per chi lo segue da anni, sia nelle sue leggendarie avventure soliste che in coppia con Walter Becker negli Steely Dan (sì, quelli di Do It Again, proprio loro…), dall’altro il libro mette in luce aspetti della personalità di Fagen che possono servire a comprendere per quali motivi rientri a pieno titolo nella categoria degli esiliati dall’iconografia del rock, e perché il suo culto sia ormai riservato a una sola categoria dell’umanità, per sua fortuna la più redditizia economicamente. Prendete nota, stiamo parlando di laureati tra il 1972 e il 1980, mediamente acculturati (alto borghesi avrebbero detto fino a vent’anni fa) rigorosamente sovrappeso e stempiati, amanti della qualità audio (e per questo possessori di costosissimi impianti hi-fi) e dello humor nero, attraverso cui stemperare le delusioni accumulate nel corso degli anni. Insomma, gente pronta ad una lenta discesa verso gli inferi dell’individualismo e dell’autoreferenzialità geriatrici, ma intenzionata ad affondare insieme a chi li circonda.
Cosa rende possibile un’identificazione così precisa dell’ascoltatore medio di Donald Fagen? Niente data mining, né analisi della neocorteccia,né Giucas Casella: basterà citare qualche argomento affrontato dall’autore perché chiunque possa comprendere. Nel libro vengono si disquisisce di argomenti quali la qualità degli hotel nel sud degli States, come capire se e quanto recentemente la piscina degli stessi sia stata igienizzata, la bellezza della science fiction anni ’60 prima che fosse corrotta da Scientology, Henry Mancini e le sue colonne sonore hard-boiled, gli anni disadattati del college, passati nei jazz club, e perfino un’intervista con uno scontrosissimo Ennio Morricone. Tematiche, insomma, più vicine ad un pubblico di suoi coetanei che a giovani non ancora pronti a rassegnarsi all’uso terapeutico della nostalgia. È questo il limite, ma anche l’essenza dell’opera di Fagen: il prendersi incredibilmente sul serio, sia sul piano delle passioni e delle scelte musicali (l’estenuante postproduzione di ogni album, l’ossessione per la qualità dell’ascolto) che su quello delle attitudini personali e professionali (l’ostentato snobismo newyorkese), accompagnato ad un’(auto)ironia così forte da spingerlo a chiamare la sua band come un vibratore. D’accordo, era pur sempre un vibratore d’autore (Steely Dan appare ne Il Pasto Nudo di Burroughs), ma non si può pretendere tutto.
Fagen e il suo complice Walter Becker, si conobbero al college, che sarà il punto focale intorno a cui ruoteranno le loro prime canzoni, dove entrambi frequentavano, senza troppa convinzione, corsi di musica e letteratura. Dopo un po’ di sporco lavoro come turnisti, i due decidono di creare una finta band, gli Steely Dan, circondati da musicisti “intercambiabili”, e nel 1972 ecco Can’t Buy A Thrill, che ottiene un successo inaspettato grazie a due singoli, Reelin’ In The Years e Do It Again, con il lungo assolo di sitar elettrico di Denny Dias. Una digressione secondo me la merita il chitarrista della prima formazione dei Dan, Jeff “Skunk” Baxter, il quale negli anni ’80 si trasformerà in esperto di armamenti, nonché portavoce dell’associazione “AMERICANI PER LA DIFESA MISSILISTICA”, nonché membro della band “Coalition Of The Willing”, formata da ambasciatori stranieri in America e congressmen, il cui nome è ispirato ad una celebre frase di George W. Bush. Fantastico, no?
Tra l’altro, entrambi i singoli sono tra i pochi brani dell’album ad essere cantati da Fagen stesso, il quale, essendo insicuro della sua vocalità e terrorizzato dal cantare in pubblico, preferiva lasciare il compito a David Palmer. Il critico Robert Christgau, recensendo l’esordio della band, definiva gli Steely Dan come “il primo gruppo post-boogie: il ritmo che scivola più che colpire, gli accordi che si susseguono deludendo le primitive aspettative del nostro subconscio, e le parole che sottolineano la loro stessa difficoltà – così come la difficoltà della realtà a cui fanno riferimento – con allusioni arbitrarie, personali, per la maggior parte degli artifici”.
Il secondo album di Fagen&Becker, Countdown To Ecstasy seppur più vicino ad atmosfere prettamente rock e “commerciali”, patirà la mancanza di un singolo a trainare le vendite, pur venendo accolto molto favorevolmente dalla critica. Tra l’altro, come si può definire commerciale un disco che parla di ambigui guru indiani (“Bodhisattva”) e prostituzione al college (“My Old School”)? Countdown To Ecstasy è il primo vero album degli Steely Dan per come li conosceremo in futuro: musicalmente, un incrocio tra Duke Ellington, Ray Charles e una qualsiasi rock band anni ’60, nei testi, un’inimmaginabile fusione a freddo tra Bob Dylan e Raymond Chandler.
Il successivo Pretzel Logic, del 1974, rappresenta forse la miglior sintesi di questa prima fase della carriera di Donald Fagen, nonché un disco da possedere assolutamente, contenendo, nell’ordine:
- Un “furto” a Horace Silver e alla sua “Song For My Father” (“Rikki Don’t Lose That Number”), una cover di Duke Ellington e una canzone su Charlie Parker;
- Dei fantastici pezzi soul-blues (“Night By Night”, “Pretzel Logic”, “Monkey In Your Soul”);
- Una delle più belle ballads mai scritte, “Any Major Dude Will Tell You”, reinterpretata tra l’altro dai Wilco per la colonna sonora di “Io, Me & Irene”, interamente dedicata agli Steely Dan;
- Un attenzione maniacale al processo di registrazione, che sarà tra i motivi per cui la band cesserà di suonare dal vivo e a ridursi progressivamente ai due membri fondatori.
Le stesse caratteristiche sopra elencate possono essere rintracciate nei due album che seguiranno, Katy Lied, in cui le tematiche affrontate spaziano dalla crisi economica, a padri alcolizzati e redenti, dalla nostalgia per la Manhattan che fu, a strani dottori amanti della “medicina alternativa”, e The Royal Scam, dove trovano spazio l’elevazione del fez a metafora della contraccezione, le cave di Altamira, divorzi ad Haiti e la chitarra del leggendario Larry Carlton.
La seconda parte della carriera di Fagen inizia con Aja, nel 1977, e con il suo successore Gaucho, del 1980. Gli Steely Dan rispondono alla rivoluzione del punk in maniera diametralmente opposta agli Stones di Some Girls, decidendo di rinchiudersi con i musicisti più talentuosi della loro generazione (Mark Knopfler, Steve Gadd, Wayne Shorter…) negli studi di registrazione, quasi fossero dei rifugi antiatomici, piuttosto che di rimettersi in discussione come Jagger&Richards. In entrambi i casi, va detto, il risultato è eccezionale, ma un punto a favore dei Dan va dato per l’essere sfuggiti agli ammiccamenti disco di “Miss You”, preferendo un limbo fatto di funky e jazz, di Gil Evans e Al Green. La gestazione di entrambi gli album dei Dan è infinita: eserciti di musicisti vengono convocati a corte per eseguire la loro parte e, con la stessa facilità, vengono fatti accomodare all’uscita, e i mesi nel bunker non possono che portare al “congelamento della band”.
Fagen, che sembra tutto tranne che esausto da questa routine, e nel 1981, in solitario stavolta, incide uno dei più grandi album di tutti i tempi: The Nightfly. Il disco è un concentrato di nostalgia e disprezzo per l’ingenuità dei primi ’60, quelli della bomba H e dei russi armati fino ai denti, delle radio notturne, degli amori adolescenziali e del culto della scienza come veicolo per un futuro migliore, ben rappresentato dall’Anno Geofisico Internazionale (I.G.Y.) del 1957. Musicalmente, gli arrangiamenti elaborati marchio di fabbrica degli ultimi album degli Steely Dan vengono applicati ai generi più disparati, dal rhythm&blues (“Ruby Baby”), alla bossa (“The Goodbye Look”), fino alla ballad romantica (“Maxine”), con un suono che a trent’anni di distanza risulta ancora attuale e fresco.
L’esperimento solista verrà riproposto con Kamakiriad, sorta di Odissea a bordo di una futuristica automobile (più asettico, meno riuscito e invecchiato piuttosto male), e, nel nuovo millennio, con Morph The Cat (da avere assolutamente) e Sunken Condos, del 2013, che contiene una ammiccante versione funky-klezmer della “Out Of The Ghetto” di Isaac Hayes, il cui senso viene ironicamente travisato e trasportato indietro nel tempo con un semplice cambio nell’arrangiamento. Ah, dimenticavo, nel frattempo gli Steely Dan si sono riuniti, vincendo un grammy con un album contenente, tra le altre cose, la storia di un musicista di mezza età intento a sedurre la sua giovane cugina e una canzone d’amore che lentamente si trasforma in una squallida proposta di sesso a tre (in cambio di un viaggio in Spagna).
Per farla breve, quale sarà il lascito di Donald Fagen alla musica e alla cultura dei tempi futuri? Beh, se coolness, humor e umore entrambi neri, autoreferenzialità e grande musica non vi sembrano abbastanza, forse non siete degni di unirvi alla “New Frontier” di cui fanno parte Dave Bruebeck, Fagen stesso e una bionda che lui stesso ha provveduto a conquistare con questa invenzione.