Esistono registi che hanno una ben specifica idea di cinema, ovvero quella di indurre sensazioni di sgradevolezza (e persino repulsione) che, per quanto facciano male al nostro stomaco, ambiscono alla rappresentazione di grandi temi universali nutriti di allegoria. Yorgos Lanthimos, elegantissimo regista greco formatosi nel contesto teatrale, ha di certo fatto scuola con Dogtooth (Kynodontas, dente canino), opera seconda cruda e crudele accolta con scalpore al Festival di Cannes del 2010, forse la più grande meditazione sulla dittatoria vista nell’ultimo decennio di cinema. Si narra la storia di reclusione di una famiglia composta dai genitori e i tre figli (un maschio e due femmine), confinati all’interno del loro microcosmo domestico per proteggere la prole dai pericoli del mondo esterno. L’unico contatto con la realtà al di fuori del “nido” è possibile solo quando il padre paga una ragazza perché venga a fare sesso con il figlio maschio a intervalli regolari.
Dogtooth omaggia dichiaratamente le filmografie di Michael Haneke e Lars von Trier, ma sotto certi aspetti sembra quasi di rivedere un The Village di M. Night Shyamalan su scala ancor più ridotta, in cui il padrone del microcosmo lo conforma alla propria visione del mondo. Lanthimos dimostra di aver ben compreso come agisce la propaganda, esibendo un annichilimento della genitorialità che trattiene i figli in uno stato di perenne infantilismo per garantirne il servilismo, e mostra tutto l’orrore della manipolazione di menti inermi per mezzo della distorsione della realtà: i ragazzi sono stati indottrinati ad avere paura dei gatti e a chiamare “telefono” il sale, la loro routine giornaliera viene scandita da azioni ripetitive e giochi inconcludenti. Tutto questo, però, non potrà che fluire inevitabilmente in un naturale desiderio di ribellione che preme dall’interno per affermarsi.
Dogtooth è al contempo affascinante e snervante in quanto affronta senza timore risvolti sessuali che potrebbero disturbare certo pubblico oltre all’esplicita esibizione di violenza cruda e nudità. La regia di Yorgos Lanthimos è essenziale, pregna di un rigore elegante che sembra cozzare con il soggetto, accentuandone la bizzarria. Il gioco sui silenzi prolungati e il candore delle claustrofobiche scenografie potenziano novanta minuti dai ritmi dilatati ove regna il distacco emotivo. Lanthimos lavora sui linguaggi del dramma intimista condito di umorismo grottesco, sbuccia le falsità dell’essere umano, abbraccia le limitazioni e la follia di quel gioco che è la vita. E il risultato sa di storia del cinema.
Prodotto dalla casa produttrice indipendente Boo Productions, Dogtooth nacque come cortometraggio, ma fu grazie ai finanziamenti del Greek Film Center se oggi stiamo discutendo su un film diverso. Poche opere cinematografiche mirano con tale potenza alla psiche umana come il capolavoro di Lanthimos, stroncato un po’ da tutti all’uscita ma sottoposto a recente rivalutazione anche grazie ai più recenti successi riscontrati dal regista con The Lobster e La favorita. Un must per chi vuole avventurarsi in un metacinema così forte e reale.