Dogman era il film più atteso dell’anno, tra i fan del noir e gli amanti della cinematografia di Garrone, le aspettative erano sempre più alte. A far esplodere il fenomeno è stato poi il successo a Cannes e il premio all’attore protagonista, inaspettato e allo stesso tempo meritato.
Dogman è il nome della toletta per cani del proprietario, Dogman è il nome che più si addice al protagonista, Marcello Forte, che per tutta la durata del film manifesta un amore sviscerale per qualsiasi animale a quattro zampe. Ma Dogman è anche la prospettiva del film, che non smette mai di dare spazio ai cani durante la narrazione, che prendono il sopravvento e alle volte invadono completamente la scena mostrandoci la loro reazione alla realtà da cui fintamente ignari, sono circondati.
Il film ha preso ispirazione dalla cruenta storia del Canaro, vicenda che si è consumata nel quartiere della Magliana alla fine degli anni ’80. Lasciando però poi che la narrazione cinematografica prendesse una sua autonoma strada, svincolandosi dalla narrazione giornalistica di quegli anni e adattando perfettamente la vicenda alle esigenze stilistiche del regista. Distacco radicale e più importante è quello che attua proprio sul personaggio protagonista della vicenda. Sappiamo bene che nella realtà il Canaro compie un evoluzione passando dal sottomesso e docile abitante, all’assassino spietato. Questa caratteristica portante della vicenda di cronaca viene del tutto cambiata da Garrone, creando un personaggio molto più coerente, che non risente di questa trasformazione ma che al contrario conserva quella dolcezza profonda e delicata. Altro elemento fondamentale del film è l’impossibilità di collocarlo temporalmente e geograficamente, impossibilità dovuta alla mancanza di qualsivoglia accento riconoscibile o connotazione temporale. Queste due nozioni sono quanto basta per capire il lavoro che, alla superficie, ha compiuto il regista.
Garrone infatti ha estrapolato alcune linee guida dalla storia di cronaca spostandole in un universo altro, al limite del conoscibile, in un villaggio sospeso tra modernità e arcaismo, dove a governare è ancora la legge del più forte, e che allo stesso tempo conserva un’interezza, una coesione tra il popolo e il manesco dittatore.
In questa dinamica attua una scelta diversa dal panorama cinematografico da cui è circondato, che cavalca l’onda, chi più chi meno, della narrazione della periferia romana e della loro criminalità. Ma a dire di Garrone, il contesto in cui è nata la vicenda reale non gli riguardava, così ha preferito tornare nella location a cui è tanto affezionato e in cui ha girato Gomorra e L’imbalsamatore.
Le caratteristiche che Garrone dà alla storia, ci permettono di vederla con occhi diversi e di sentirci più vicini ad essa, di poterci quasi riconoscere in Marcello, nella sua condizione psicologica che nel corso di tutto il film è piena di amore e tenerezza per la figlia, per il suo lavoro e per i cani, di affetto e affiatamento per i sui compaesani, di tensione e di sottomissione nei confronti del suo antagonista, ma anche e soprattutto nel desiderio di sentirsi riconosciuta la sua dignità, dalle sue difficoltà nelle relazioni umane e nel disperato tentativo (vedi scena finale del film) di mantenere una coesione con tutti gli abitanti del villaggio. Dogman è un film che parla di noi, delle dolcezze e delle debolezze umane in un ambiente piccolo e ristagnante che si fa però metafora della nostra società e si mostra nella diversità umana e nei suoi disperati tentativi di evadere o di assoggettarsi dalla condizione di sottomissione.
L’unica vera violenza che si trova, palpabile, nel film è una violenza psicologica, uno schiaffo in faccio allo spettatore che viene messo di fronte a questa rete di ingiustizie in cui è facile accedere emotivamente grazie proprio alla tenerezza di Marcello, e ai suoi occhi, che per tutto il film continuano a parlarci.
Questo film, continua perfettamente nella direzione che ha assunto la cinematografia di Garrone, il cui scopo ultimo è quello di indagare la condizione psicologica dei personaggi.
Ma in questo mondo chiuso e claustrofobico in cui il protagonista cerca di arrancare c’è, come sempre, il desiderio di evadere ed andare lontano, di prendere per mano la sua adorata figlia e nuotare verso luoghi lontani da quel piccolo villaggio. Le scene di immersione con la figlia e i viaggi di ritorno con l’aliscafo danno a noi e a Marcello un respiro, quel contatto con la natura che permette al personaggio di estraniarsi dalla realtà dura e grigia in cui è impigliato. Ma anche in questi momenti, la realtà può prendere il sopravvento, perché troppo spigolosa per poterla affogare in un fondale marino, troppo dolorosa per non lasciare la mano di sua figlia e ritornare a galla, nella realtà, dove le costole fanno male per davvero.