Il 2 e 3 Novembre a Londra vi aspetta la terza edizione di FILL, Festival of Italian Literature in London. Tra gli eventi in programma al Coronet Theatre ce ne sarà uno dedicato alla figura leggendaria di Diego Armando Maradona dal titolo Epic Diego, un doppio incontro con il regista Asif Kapadia, proprio in questi giorni in sala con il documentario che racconta Diego, e Alessio Forgione, autore del romanzo Napoli Mon Amour, uscito lo scorso anno per NN Edizioni. Nell’attesa, siamo andati a vedere il documentario di Asif Kapadia a Napoli, nella terra che ancora oggi conserva la sua devozione a Maradona. Ecco cosa dobbiamo aspettarci da questo documentario. (Qui potete leggere l’intervista al regista Asif Kapadia)
Tutto inizia dal nulla, come nei migliori best-seller cosmogonici: Villa Fiorito, baracche e desolazione. E fu il calcio. El niño prodigioso Diego Armando Maradona, avete presente? Tre giorni amarcord: 23-24 e 25 settembre, rivivendo il sogno nato nella polvere della favela, che con grande dispendio di stupore attraversò l’Oceano e ridisegnò mille volte i campi di calcio: costellazioni di inseguimenti – le gambe e il pallone – fine illusionismo, nuovi itinerari per trionfi e disfatte.
Nelle sale cinematografiche italiane in programmazione Diego Maradona. Ribelle, Eroe, Sfrontato, Dio il nuovo documentario di Asif Kapadia. Varietà amaro in immagini tratte dall’ archivio personale del più grande calciatore di tutti i tempi, una selezione effettuata su oltre 500 ore di filmati inediti. Dopo Senna e Amy, Kapadia ancora una volta procede scientificamente, scandaglia cause ed effetti , si innesta nella storia con sguardo iper-documentato sulla difformità, la deviazione, l’inconsueto con pubblico attorno. Ricostruire un destino, a partire dalla squadra più “sgarrupata” del campionato che acquista il calciatore più costoso, dribblando tra gli anni, sette, spesi, consumati, divorati nella città che ne costruì il mito.
È il 1984, Diego Armando Maradona arriva a Napoli e non sa di essere incappato nel più assortito pantheon delle divinità misconosciute, nella culla beffarda del Tutto che rimescola e raccorda e ha immaginazione quasi quanto ha crudeltà. Cinici e bari, specchi che dialogano il calciatore e la città, negri che scalano la classifica del campionato, inanellano vittorie e trattano con l’infinito da più punti, inventando uno scudo – e poi uno scudetto, due scudetti – a sostituzione del cielo, qualcosa come un sentimento di fratellanza smargiassa. I festeggiamenti che seguirono la vittoria dello scudetto dell’87 – una Napoli riscattata, estesa, onnicomprensiva, ribaltata dal fondo più fondo del dileggio, quando il razzismo era poco più che una sfumatura relazionale, non censurata dagli sfogatoi domenicali nazionali – restituiscono la dimensione e qualità del Sogno.
Ma il passaggio da uomo a divinità – parecchio incompleto, chiedete allo Stige – è costellato di errori, eccessi di tristezza, gioia feroce e hybris. La droga e le prostitute, una vasta collezione di Rolex come solido reminder dell’attaccamento della camorra al dio fragile, feticcio prediletto, ospite immancabile e intrattenitore per cerimonie della malavita. Bollicine e cupio dissolvi in salsa partenopea: un kitsch virato nostalgia, a rintracciarne il principio si finisce in fondo agli occhi stupiti di un quindicenne che firma con l’Argentinos Juniors e cancella in un colpo un karma inclemente, per sé, per tutti, e che sia festa per sempre. La coppa del Mondo stretta come un figlio, dal figlio magico dell’Argentina, conquistata nel mondiale messicano dell’86, anche grazie a quella mano de Dios che resta il gesto più politico sfrontato e geniale mai consumatosi in un campo calcistico.
Lo sguardo di Kapadia è un’immersione nella favola bella, ma non fa sconti sulle ombre, coinvolgendoci per sempre nella caduta del mito. Fa un certo effetto, l’effetto del tempo che affila, sentire la voce di Ferlaino che oggi ammette: “Io sono stato il carceriere di Maradona”. Al campione, irregolare, una personalità inconciliabile, non contenibile in obblighi e limiti, il presidente negò la possibilità di svincolarsi dalla squadra e dalla città che ormai lo teneva stretto a una vita da cui sognava soltanto di liberarsi. La pressione e l’invadenza della gente, la giostra continua di allenamenti e feste, Claudia Villafane pilastro, la famiglia come tutti, aspirazioni di normalità, e poi le donne, il gossip, il figlio avuto dalla Sinagra. Ostinato e generoso, ancora una volta estremo e spettacolare, con già mezzo mondo contro, Maradona regala il secondo scudetto al Napoli nel ’90, per poi tradire città e nazione ai Mondiali dello stesso anno, battendo l’Italia nel suo mondiale, umiliando la città nel suo stadio, il San Paolo. Non dovrebbe esserci sorpresa eppure c’è e molta, il dio e la città negano la palese manifestazione: sono due eccentrici svisamenti dello stesso spirito, irriconoscenti entrambi, vittoria o muerte e caldere di rancore. L’argentino è nemico pubblico: per Kapadia la fine è quel mondiale, ma la città non ama specchiarsi, è questa la verità.
E quando finalmente un anno dopo Diego riesce a scappare da Maradona, dalla Napoli che ne è il più vivo e implacabile ologramma, l’antidoping e i problemi giudiziari non sono che un raccordo chiacchierato, forse l’unico wormhole possibile per rimettere Diego in contatto col ragazzino che fu. E anche adesso che il dio imbolsito e stanco, diciamo lontano, non riposa ma ripercorre stremato la sua stessa storia, anche adesso che la città è diventata glam e le pizze a portafoglio conoscono una nuova dimensione di divismo. Adesso che le piazze di spaccio si dividono il proscenio con la capillarità incosciente dei turisti curiosi, quello che resta è la sostanza del Sogno: dove finisce il dio? Dove inizia la città? E le infinite riscritture della memoria, ogni vico una voce. Kapadia ha ascoltato la sua versione, che forse non è così puntuale, ma nemmeno delude, l’inconveniente è la traduzione. Non Gomorra ma Gotham City, un fumetto dove il bene è tanto bene e il male è tanto male, – Napoli-, dove tutto sta così stretto e miracolosamente abbracciato, da sospettarne, ridendo e inorridendo, l’illusorietà. E non vi è dubbio che il racconto di tutto questo giaccia nascosto, finalmente perfetto e inquietante, in un manoscritto perduto di Borges. O, Gesù Gesù, in un verso di Pino Daniele: “Si’ ‘o vvuò sape’ ‘sta luna…è fummo e niente cchiù”.