Negli anni, la narrativa attorno a uno degli argomenti più dibattuti (ma allo stesso tempo forse il più canonizzato, all’unanimità) dalla critica musicale — ovvero quello raccolto nel fascicolo (mai) archiviato come “il difficilissimo secondo album” — ha assunto le più improbabili forme e sfumature, in una diaspora di versioni, aggiornamenti e variazioni sul tema che hanno ipoteticamente incanalato una mole di dati sempre più consistente verso la scontata conclusione di partenza: il disco numero due è — per chiunque, da qualunque lato vogliate analizzare la faccenda — quello più complicato da pensare, programmare e poi gettare in pasto alle belve là fuori.
In particolare, uno di questi corollari recita — come vuole il cliché ammonitore stampato sulla quarta di copertina di qualunque manuale per band emergenti — qualcosa di riassumibile in: “avrai tutta la vita per scrivere il tuo primo album, ma poi, comunque vada (soprattutto se dovesse fare il botto), ti daranno meno di sei mesi per il secondo.”
Deve essere quello che è successo ai Django Django, più o meno. Dico “più o meno”, perché il quartetto britannico — a voler essere onesti — c’ha anche provato a “resistere resistere resistere” alle pressioni esterne che li volevano di nuovo sulla breccia immediatamente dopo il sorprendente debutto del 2012 e si è preso ben tre anni per rimuginare sulla strada da prendere e scegliere le parole giuste per rispondere a quella domanda noiosa che tutti ti pongono a bruciapelo quando ti vedono sull’orlo di diventare grande: “e ora, cosa vuoi fare della tua vita?”. Esigenza lecita: anzi, caldamente consigliata, soprattutto se le parole giuste proprio non le trovi. Se però la soluzione all’annoso quesito deve essere Born Under Saturn, allora tanto valeva sputarla fuori nei sei mesi di cui sopra, cavalcare l’onda lunga dell’hype almeno fin quando non si fosse esaurita sulla spiaggia e passare poi alla cassa godendosi il frutto immediato delle royalties sotto forma di vasche di mojito da consumare senza rimorsi all’ombra delle palme, sfottendo da seduti i colleghi che continuano a provare a fare la differenza restando in equilibrio nel mare agitato del music business.
In altri termini, “tempo sprecato” hanno sentenziato coloro i quali fanno dei giudizi tranchant una ragione di vita. “Django mi stai diludendo” hanno sogghignato i più reality-addicted. “Peccato”, hanno sussurrato a testa bassa quelli che ci avevano creduto.
Già, peccato. Perché l’omonimo primo disco — nella sua caotica estetica che andava diretta a posizionarsi in una felice nicchia di music geek vagamente artistoidi — almeno ti insinuava in testa qualche opzione in cui crogiolarti: è meglio se mi faccio una passeggiata nei vicoletti del centro storico del tempo che fu, rischiando di slogarmi una caviglia sui sanpietrini di un pop-rock un po’ agée ma pur sempre squisito, o dovrei forse fare un salto oltre la rivoluzione industriale gettando almeno un sguardo verso un futuro meccanico e mettere un po’ di kraut-fuel nel motore? Sarebbe il caso di star qua a contemplare ancora per un po’ l’inutilità di qualunque mia scelta stilistica, soprattutto se confrontata con le immense possibilità che offre un universo in continua espansione o magari è preferibile fingere di essere una indie-star finché dura e vedere l’effetto che fa? Ok, come approccio bohémien non si discostava di molto dal “vengo / non vengo” di morettiana memoria, però Django Django era comunque immediato, intelligente, a modo suo anche un po’ sborone e, rimanendo in bilico su questo tipo di dualismi giocosi, lasciava prospettive praticamente sconfinate sia alla band che al suo pubblico. Poi purtroppo è andata che il disco successivo invece non ha portato nessuno — nè la band, nè tantomeno il suo pubblico — un passo più in là dei propri dubbi, lasciandoci in mano più che altro polvere (per quanto, a tratti, di stelle) e sbiadite tracce delle promesse abbaglianti di pochi anni prima.
Non che Born Under Saturn mancasse di pezzi interessanti, ma l’impressione di ritrovarsi rassegnati, in ginocchio (ben oltre il concetto di “minestra riscaldata”), di fronte al piatto freddo della cena è stata forte. Fortissima.
Con queste premesse, è risultato facile entusiasmarsi nel ritrovare Neff e compagni, a ulteriori tre anni di distanza, non solo così freschi, vitali, in forma e per niente abbacchiati, ma ancora meravigliosamente indecisi su cosa fare da grandi, nonostante grandi ormai lo siano diventati da un po’.
Se siete di quelli che giudicano un album dal ventaglio di influenze che si prodiga di non nascondere (anzi, nel caso specifico, che spesso mette volontariamente in vetrina ai limiti di una, chiamiamola, “sindrome del pavone”) vi farà piacere sapere che il nuovo Marble Skies passa senza particolare imbarazzo (tutt’altro: con compiacimento sornione e notevole gusto, direi) dai beat sfacciatamente motorik dei Neu! alle chitarre vibranti tipiche di un certo surf anni ‘60, dai brusii elettronici di un synthpop dichiaratamente eighties agli echi cavernosi e effettati rubati a un certo reggae contaminato (tu chiamalo, se vuoi, dub), da intermezzi sputtanati nei seventies del più becero vocoder a aperture vocali e strumentali espanse come nella migliore, assolata psichedelia. Di più: vi delizierà notare che tutta la lista appena elencata viene passata in rassegna soltanto nel corso dei quattro minuti della title-track di apertura, e che la cosa non si esaurisce lì, visto che con i pezzi successivi la situazione si fa — se possibile — ancora più eterogenea. Strizzatine d’occhio (nemmeno troppo mimate) a ritmi da dancefloor e singoletti scala-classifiche, sintetizzatori annacquati che rimandano a una certa tropical-house, ritmi frenetici che sanno quasi di hardocore/punk, chitarre garage-rock e tutta l’orgogliosa stramberia di fondo del loro sentirsi alfieri di un qualche 21st century pop post moderno. Qualunque cosa significhi.
Non si sa bene se sia una scelta coraggiosa o una specie di propensione naturale a cui i Django Django non riescono a sottrarsi (termine tecnico: vizio), ma sicuramente il rischio era alto. Da un lato è vero che questo approccio avventuroso a un forma di rock non etichettabile (o comunque non etichettabile con meno di dieci parole), fino a oggi, ha (in certi momenti più, in certi momenti meno) dato loro i suoi frutti, portandoli, da sbarbatelli diplomati di una scuola d’arte quali erano, ai confini di un potenziale successo mainstream (o come volete chiamare una nomination al Mercury Prize sommata a un paio di featuring nella colonna sonora di qualche videogame o spot televisivo). Dall’altro però, quando una strabordante abbondanza di idee sonore viene servita senza l’accompagnamento di canzoni pressoché irresistibili, la possibilità è quella di finire a sentirsi come legati al tavolo di uno di quei ristoranti pretenziosi in cui la stranezza degli ingredienti e la complessità della presentazione vanno a discapito dell’effettivo gusto del piatto, al punto da lasciarti inderdetto riguardo al lato da cui aggredirlo senza rovinare la composizione, bloccato in un limbo statico in cui rimpiangere per sempre la chimica malata di un buon vecchio cheeseburger.
Insomma, che sia la sincronia matematica degli Everything Everything o l’hipsterismo un po’ spocchioso dei Dirty Projectors, ogni disco che tenta di mischiare un caleidoscopico surplus di input variopinti raccogliendoli con l’imbuto dentro qualcosa di attuale, spesso ha l’effetto quasi controproducente di ficcarti in testa un’immagine non proprio confortante: i membri del gruppo che, mentre suonano, si guardano complici e maliziosi, come volessero sottintendere “lo stiamo facendo solo per sembrare fighi”.
Ad ascoltare questo terzo album, sembra comunque che i Django Django abbiano imparato la lezione e preferiscano tenersi a dovuta distanza dalla trappola che la loro stessa attitudine stava per l’ennesima volta preparando. Solo che, invece di rallentare guardinghi alla ricerca delle tagliole sparse tra l’erba, hanno pensato bene che la soluzione migliore per non farsi di nuovo male fosse saltare il prato a piè pari, confidando che spingere ancora di più sull’acceleratore del loro eclettismo potesse garantire la fuga verso un non precisato nowhere musicale, senza rimanere stretti nella morsa del simpatico mostro che stavano creando.
La notizia è che, se di scommessa si è trattato, funziona e, per la precisione, funziona così: Marble Skies ha i suoi punti deboli e si concede un minimo sindacale di passi falsi, ma non fai in tempo a rendertene conto che già te ne sei dimenticato. Non ti piace una delle mille idee dei DD? E che problema c’è? Nel giro di un minuto te ne proporranno altre novecentonovantanove, molte delle quali — qui sta il punto — decisamente più sorprendenti che irritanti, quasi tutte abilmente incastrate l’una dentro l’altra come fosse la cosa più normale di questo mondo.
Non solo, come fosse la cosa più spassosa di questo mondo.
“Ci sono uno scozzese, un inglese e un irlandese…” — immagino sia l’incipit di migliaia di barzellette che detengono praticamente il monopolio della tradizione orale del Regno Unito, e qui — come si suol dire — “cade a fagiolo”, perché se c’è una cosa che dobbiamo concedere a David MacLean (direttamente da Dundee, sulle rive del Mare del Nord, Scozia orientale), Jimmy Dixon (figliol poco prodigo di Leeds, contea british del West Yorkshire) e Vincent Neff (orgogliosamente gaelico di saudade nei confronti della baia di Donegal, nell’Ulster) — per non dimenticare l’altro highlander Tommy Grace — è che di sicuro sanno come stamparti un sorriso sulla faccia. Che tu lo voglia o meno.
Certo, va detto che hanno dalla loro il vantaggio storico, derivante dall’assunto — ormai anche questo comunemente sdoganato — secondo il quale la musica pop non ha bisogno di una seppur minima risonanza emozionale per farti innamorare di lei (oppure, se non vogliamo scomodare parole troppo grosse e mielose che potrebbero mandare in frantumi la nostra fragile sfera affettiva, diciamo almeno almeno incuriosire, o anche solo un banalissimo canticchiare). Eppure, in generale, se c’è qualcosa — un indizio, un rimando, un deja-vu — che riesce a connettere la mente con gli spasmi del corpo (lo chiamerei ballare, ma gli intrecci stratificati delle melodie di un pezzo qualunque dei Django Django rimangono comunque eccessivamente articolati per pretendere di seguirli con un solo istintivo movimento di bacino) le cose si fanno sicuramente più intriganti.
Ecco. È in questo non trascurabile particolare che Marble Skies centra in pieno il bersaglio, ovvero nel suo rivelarsi un disco intelligente e divertente allo stesso tempo, che riesce — come nessuno dei suoi due predecessori ha saputo fare — a bilanciare senza fatica le due cose, dando finalmente più spazio alla componente ludica, in passato troppo spesso sacrificata sull’altare di un pretestuoso intellettualismo.
Probabilmente i Django Django non saranno mai capaci di partorire un album perfetto (sempre che “perfetto”, in questo contesto, sia un aggettivo adeguato) ma hanno un talento quasi ineguagliabile, che si manifesta in quella buona, vecchia dote artigiana che riesce a fare delle proprie imperfezioni un catalogo di pezzi perfettamente unici, che rifiutano qualsiasi tentativo di categorizzazione seriale.
Marble Skies si specchia beato in tutte le loro sfaccettature, e questa volta lo fa senza tirarsela troppo, ma mettendo piuttosto in mostra un ricercato campionario di smorfie che inesorabilmente toglieranno il broncio dal brutto muso del vostro peggior lunedì, prendendovi alla sprovvista con una logica inattaccabile nel suo essere strampalata: sorridente, gente, perché qualunque lunedì, per pessimo che vi possa sembrare, rimane comunque il giorno della settimana più lontano dal prossimo.
Dal prossimo lunedì, dico.
Parola di Django.