Immaginate un networking di persone che fanno rete e collaborano nell’era pre-internet, che ha permesso a etichette, fanzine o riviste indipendenti di creare uno speciale canale di collaborazione e distribuzione alternativo, un canale che ha consentito a band fisicamente lontane e sconosciute di entrare in contatto, organizzare tour, contribuire all’esplosione di un genere. Difficile immaginarlo oggi, nell’era in cui tutto è a portata di mano per fare networking vero? Eppure nei tardi anni Settanta il messaggio DIY (do-it-yourself) esplode, entro quella sottocultura punk che consacrava un intero immaginario alternativo. Essere DIY è una forma particolare di protesta, ma anche una rivendicazione dei propri spazi di indipendenza: in questo senso DIY è sia un’etica che una controcultura capace di creare e stimolare spazi alternativi alla cultura di massa.
Vi racconteremo una storia che parte da lontano, che si agita nella sottocultura punk, esplode viva con la forza dell’hardcore e arriva fino ai giorni nostri. Lasceremo che siano anche gli eroi di questa storia a parlare, eredi di una piccola favola che non smette di narrarsi. Dal network delle primissime etichette indipendenti, fino a quello contemporaneo – che nel nostro paese non smette di produrre e ricercare. Dalla tribù di Ian MacKaye, fino a storie recenti come quella del Premio Buscaglione e dell’etichetta napoletana Bulbart.
Alle radici del DIY
Una delle primissime esperienze di produzione in stile DIY è l’EP Spiral Scratch (1977) della band inglese Buzzcocks, che all’epoca lanciò anche una delle prime etichetti indipendenti punk del Regno Unito, la New Hormones. Seguendo quell’esempio di auto-produzione nasceranno nel Regno Unito etichette come la Rough Trade o la Factory Records, complici dell’esplosione del post-punk inglese. Quel che succede oltre oceano invece è che il punk prova a riformularsi nella contestazione apocalittica dell’hardcore: ritmi veloci e duri, aggressività e sudore. L’hardcore punk rifiuta compromessi, nasce in aperta contestazione al clima reaganiano di sfrenato liberismo degli Ottanta: i testi sono volutamente duri, taglienti, ironici, anti-politici (la vera anti-politica è lo star fuori dai giochi). Quello che si prospetta di contro è un’etica critica nei confronti dello sfrenato consumismo globale, che incoraggia a riscoprire spazi creativi personali e di indipendenza, che rifugge l’horror vacui del mainstream e del consuma per sopravvivere. Essere DIY non è solo una particolare forma di produzione musicale, ma una vera e propria filosofia.
“Uno degli aspetti del Do It Yourself è che devi fare tutto da solo. È un lavoro! Ci gestiamo da soli, troviamo le date dei concerti, ci occupiamo delle nostre attrezzature, registriamo da soli i nostri dischi, e ci facciamo pure la dichiarazione dei redditi” – a parlare è Ian MacKaye, uno dei più grandi interpreti dell’epopea hardcore e D.I.Y, padre fondatore dei Minor Threat, dei Fugazi, e dell’etichetta Dischord Records, che continua imperterrita a restare fedele a se stessa e alla sua etica del fai da te. MacKaye è un personaggio controverso, autenticamente fuori da ogni stereotipo, il primo esponente di quel movimento dello “straight edge” (- che è anche il titolo di una canzone dei Minor Threat), come stile di vita alternativo e sano, che chiama a un repulisti attraverso l’astinenza da tabacco, droghe, sesso occasionale, occhieggiando a pratiche alimentari come vegetarianesimo e veganesimo. “L’intera idea di ribellione all’epoca del rock’n’roll – i tardi anni ’70 e gli inizio ’80 – era connessa anche a comportamenti auto-distruttivi”, nelle sue interviste MacKaye è molto deciso. “Droghe, alcol, sesso: nessuno ha mai voluto davvero uscire fuori da questo tipo di messaggio, nessuno di noi beveva all’epoca, io non ero per niente interessato a farlo, e mi sembrava così noioso”.
La prima tribù di MacKaye da adolescente fu quella degli skateboarder di Washington, la città dove era cresciuto. La passione per il punk nacque per le stesse ragioni: solo all’interno di tribù che avevano una spinta propulsiva e innovatrice come vera e propria controcultura, Ian riusciva a trovare la libertà di sperimentare se stesso, fuori dal codice dell’approvazione sociale. Crescere a Washington tra i ’60 e i ’70 voleva dire entrare in contatto con le prime lotte per i diritti civili e l’ondata dei movimenti pacifisti, ma sui tardi ’70 questa spinta innovatrice sembrò affievolirsi, le persone iniziavano a rifugiarsi al sicuro dentro la musica dance delle discoteche. Dov’è la controcultura? – si chiedeva allora un giovane Ian. Da quel sentirsi ai margini nacque la risposta di Ian MacKaye (e di molti altri): formare una band, fondare un’etichetta indipendente, raccogliere intorno a sé le speranze di un’intera generazione che non si sentiva più controcultura, ma aveva bisogno di una tribù. Quella tribù fu l’hardcore. “Ultimamente vedi tutte queste pubblicità in tv con giovani band indie rock nelle loro auto che portano da una parte all’altra le loro chitarre e strumenti, ed è come se si volesse enfatizzare che essere in una band è una scelta di carriera. Io non penso che sia così, io penso sia una forma di comunicazione, qualcosa che viene fuori naturalmente. Non credo che Nina Simone fosse lì a chiedersi: forse sarò un dottore, forse una musicista. E’ qualcosa che è venuto fuori e basta’”.
Da fondatore di un’etichetta di lunga durata, Ian si chiede se oggi la musica non abbia perduto la sua missione fondamentale, diventando un prodotto da piazzare sul mercato piuttosto che qualcosa che viene fuori dall’ispirazione e dalla comunicazione. Come ama ripetere: la musica è una tribù, qualcosa che esiste da prima dell’industria musicale. Un’industria musicale che tra i ’70 e i ’90 ebbe un periodo d’oro e di crescita, in quella che chiameremo la pre-internet era. In un’intervista Steve Albini ha ricordato così quel momento: “Un sacco di persone campavano intorno a quel sistema. Proprietari di negozi di dischi, compratori, lavoratori, designers, proprietari di club, producers, studi di registrazione, pubblicitari, avvocati, giornalisti, distributori, tour manager, agenzie di booking, band manager, fotografi, e in più tutti i servizi che servivano intorno: servizi bancari, di spedizione, di stampa, di fotografia, agenzie di viaggio, limousine, spacciatori di cocaina, prostitute”. L’etica D.I.Y. incoraggiava a fare tutto da soli, e la progressiva nascita delle etichette indipendenti seguì questo tipo di percorso e spirito. Se la grande industria discografica aveva trovato un sistema culturale entro cui inserirsi per vendere, di contro si aprivano numerose possibilità per la controcultura indipendente e il fai da te.
La Dishcord Records fu un’apripista nella Washington hardcore, ma sarà emblematico il caso di un’etichetta come la Sub Pop Records di Seattle, nata sul finire dei Settanta come fanzine. Dopo aver rilasciato musicassette, nel 1986 esce la compilation Sub Pop 100 (con pezzi di Sonic Youth e Steve Albini, tra gli altri), che sancisce la nascita della vera e propria etichetta. La viva stagione indipendente sembra ricca di proposte e movimento, eppure di lì a poco l’apocalisse grunge travolgerà tutto. Quando esce Bleach dei Nirvana nel 1989 proprio per la Sub Pop sentiamo ancora gli echi di una band che si ispira ai suoni sporchi e graffianti della scena DIY, ma di lì a poco Cobain troverà una soluzione più melodica per il sound della band, che verrà poi raffinato dalla Geffen Record con l’uscita di Nevermind. Il grunge diventa un duro colpo molecolare alle spalle di una scena indipendente che provava a sopravvivere e resistere in opposizione alla cultura mainstream, e anche un duro boccone da mandar giù per Kurt Cobain che non avrebbe immaginato di portare ogni deviato ed emarginato al centro della grande scena e dell’industria musicale in salsa MTV. È come se tutti gli immaginari controculturali degli Ottanta aleggiassero sopra le spalle di Cobain, che da piccolo fan di gruppi come Melvins e Black Flag, era diventato ora il portatore di un messaggio generazionale perfettamente compiuto, ma che aveva gettato le sue radici da lontano: dalla fatica di tutti i protagonisti dell’hardcore, del punk, del noise rock, di tutti quelli che avevano calcato la scena in modo davvero alternativo, costruendo un mondo di simboli e immaginari, che si trascinava addosso faticosamente chitarre e attrezzature da una parte all’altra del paese.
Tuttavia l’entusiasmo del sottobosco DIY non si esaurì nei Novanta, basti pensare a esperienze come quelle all’insegna dell’esilarante lo-fi dei Pavements, da cui derivò una certa scena dell’indie folk e rock trionfante di nuova generazione. Il lo-fi come stile di registrazione in bassa definizione, si fa portavoce di un’etica DIY di rinascita, che vede personaggi come Daniel Johnston, Bill Callahan (aka Smog), Will Oldham, Beck, cimentarsi con l’epica del restare fedeli a se stessi, alla propria voce, al proprio suono, ad esigenze di composizione spesso affidate all’ispirazione del momento, e a una registrazione low fidelity da cui nasceranno le prime esperienze fresche del rock indipendente dei Novanta. Cat Power racconta di aver composto Moonpix in una sola notte a casa di Bill Callahan, rapita da una sorta di estasi creativa. La storia narrata da Ian MacKanye a proposito della musica che nasce naturalmente, che viene fuori a prescindere dall’industria musicale, continua a ripetersi. La registrazione lo-fi diventa la diretta testimonianza di un’epoca spontanea, una tribù vitale e ispirata che vuole raccontarsi in forma di musica.
Anche le riot grrrl contribuiscono al vivo clima controculturale dei Novanta, un vero e proprio movimento underground che invia forti messaggi contro sessismo, razzismo, patriarcato, una contestazione dura che fa suo il meccanismo DIY dell’hardcore punk degli Ottanta, con un nucleo forte di fanzine che fanno da megafono al messaggio. I Novanta sono ancora “contro-culturalmente” vivissimi.
E dopo?
Essere DIY oggi
A distanza di qualche decennio non è semplice comprendere cosa sia realmente rimasto dell’etica che ha dato vita ai progetti ambiziosi di cui abbiamo parlato, e alla controcultura che spinto questi progetti. Oggi il DIY rimane legato all’indipendenza, prendendo due vie opposte: la rete o la solitudine. Il nuovo millennio ha aperto nuovi orizzonti, è bastato avere una connessione internet sempre più veloce e un pc per cambiare i parametri della nuova era fai-da-te del mercato musicale. Il caso più eclatante è forse quello degli Arctic Monkeys, la band inglese ora famosissima, ma emersa tra il 2003 e il 2004 con il supporto del web, che nel 2005 fonda la propria casa discografica, la Bang Bang Records, pubblicando Five Minutes With Arctic Monkeys, fino ad arrivare all’entrata nella scuderia di Domino Records che ancora oggi li segue e che gli diede fiducia a partire da Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not, l’album da Guinness dei primati, che ha venduto più di un milione di copie in soli 8 giorni, superando così il precedente record realizzato dagli Oasis. Dopo questo miracolo dell’Internet (per usare un’espressione dei nostri nonni) sono stati molti i gruppi che hanno cercato di diffondere la loro musica sul web, aiutati soprattutto agli esordi da una rete ristretta, quella famigliare e degli amici, per poi passare ai fan raccolti ai concerti e dietro i monitor dei pc – grazie anche a servizi come Bandcamp o Soundcloud.
In Italia la voce dell’underground musicale si fa sentire a intermittenza, come se i protagonisti della scena degli anni Duemila avessero voluto mantenere un velo di “sintomatico mistero”. Afterhours, Marlene Kuntz, Verdena e poi Baustelle e Le Luci Della Centrale Elettrica sono stati in momenti diversi portavoce di generazioni di adolescenti più o meno arrabbiati e speranzosi. Dopo di loro sono arrivati molti altri, una vera e propria ondata di gruppi che si autoproclamavano indie quando forse non era ancora considerato un insulto e l’idea di indipendenza rimaneva al centro di tutto perché c’erano pochi soldi, nessuno era qualcuno o semplicemente perché non era una moda come oggi. Calcutta, Thegiornalisti e Lo Stato Sociale, solo per citarne tre, sono esplosi, uscendo dai circuiti indie per diventare mainstream, arrivando sulla bocca di tutti e facendo la gioia delle loro etichette discografiche Bomba Dischi, Carosello Records e Garrincha Dischi. I ventenni di ieri ormai sono diventati trentenni e cantano La fine dei vent’anni con nostalgia, come se la prospettiva di superare un confine anagrafico possa in qualche modo determinare una trasformazione psicologica.
Francesca Lonardelli, fondatrice e organizzatrice del Premio Buscaglione – che cerca i nuovi talenti emergenti in Italia, ci racconta come questa vecchia guardia di nomi sia stata vitale per quello che è successo dopo: “Chi muoveva i “primi passi” nel primo decennio dei 2000 (2000/2010) aveva ben presente i modelli di distribuzione e di produzione del decennio precedente con delle possibilità in più: la rete, i primi social, le prime piattaforme di distribuzione musicale digitale. Tutti gli artisti che hanno iniziato in quel periodo e continuano ancora oggi a suonare e ad avere un mercato hanno sicuramente spianato la strada per i progetti “giovanissimi” che ora conseguono un immediato successo. La “vecchia guardia” ha preparato, a suon di chilometri di date nei circoli e festival più piccoli, un pubblico vivace e numeroso per permettere, ora, a band di recente fama di passare dalla playlist di Spotify direttamente ai palazzetti”. La storia si ripete.
Oggi la cultura del DIY rivive sui social network, nelle condivisioni che diventano virali in poche ore e non si parla quasi più di nicchia come, invece, si faceva fino a qualche anno fa. Il boom dell’indie-pop è arrivato in Italia l’estate scorsa, una stagione dove tutto quello che in pochi conoscevano è arrivato in radio, sulle pagine dei quotidiani e persino in televisione. Ma siamo già a un’altra storia, quanto è rimasto della controcultura e della freschezza del DIY di prima generazione? “La trasformazione più evidente per le etichette indipendenti negli ultimi anni è l’ingresso nel mercato di un certo tipo di progetti musicali, quello che ora si chiama indie-pop italico, ma ci inserisco anche il fenomeno trap” – ci racconta Andrea Saladino aka Il Salada, che da anni gestisce l’etichetta indipendente BulbArt a Napoli, attiva dal 2011, e che negli anni ha accumulato esperienze diverse intorno al mondo musicale indipendente italiano. “In Italia questi progetti hanno cominciato non solo a fare numeri notevoli in termine di pubblico – superiori a tanto indie degli anni ‘90 e ’00 – ma anche dal punto di vista dei cachet. Locali più grandi, più persone ai concerti, maggiori guadagni per artisti ed entourage. Di conseguenza l’etichetta – che sempre più fa attività di management – ne trae beneficio. Oltre ad inserirsi in un canone che ora è molto di moda, e crea fenomeni musicali da valutare nei prossimi dieci-quindici anni”.
Il Salada resta ottimista per le sorti delle produzioni indipendenti in Italia: “Il DIY è ormai allargato al massimo. Solo etichette come EMI, Warner, Sony, Universal, possono non essere considerate DIY. Perchè lì cedi una serie di diritti, magari ti appioppano un autore che ti scrive tutto, testi e musica, e diventi un semplice interprete di brani di altri. Ma dal sottobosco vengono alla luce una serie di nuove realtà che, una volta individuato dove il pubblico ora si sta rivolgendo, ti accompagnano nel percorso. La label è diventata di “moda” tanto quanto l’artista”. Per l’autenticità insomma c’è ancora spazio vitale, e le etichette possono aiutare a far uscir fuori quest’autenticità: “Per chi non si adatta alla moda del momento, il DIY è l’unica speranza di vita. E qui invece tocchiamo il tema atavico e secolare. Cosa è l’indie? Un genere musicale o un modo di produzione? Qui sta la mia risposta: una forma mentis che è individuabile in una totale libertà compositiva, in termini di tempi, modi, produzione, scelte. Una label è indie quando riesce a comprendere la necessità compositiva del musicista e aiuta quest’ultimo ad esprimere al meglio le sue potenzialità. È come un megafono, o un proiettore che ti ingrandisce l’immagine fino a rendertela apprezzabile.”
Ogni settimana alla Bulbart si ascoltano una decina di progetti diversi che arrivano all’attenzione dell’etichetta, si scava tra band, e su queste sinergie si animano eventi e una piccola tribù che – come ai tempi dell’hardcore punk – viene fuori con tutto il suo mondo sotterraneo. “Chi entra in Bulbart entra in una famiglia” – continua Il Salada. “La forza della label indie è l’essere umano. Hai un diretto contatto con chi ti segue, nessun intermediario, discussioni franche, onestà. Non è la ricerca del guadagno il fine ultimo del discorso. So che può sembrare assurdo (e qui Foucault mi tirerebbe le orecchie), ma ho un profondo rispetto per l’arte e l’artista, e un pensiero politico che mi allontana dal pensare che tutte le attività umane siano valutabili in termini economici”.
Francesca Lonardelli, con un po’ d’amarezza, ci racconta invece come la rincorsa sfrenata al “successo personale” al giorno d’oggi, sia diventata una speciale ossessione quasi patologica, che non ha lasciato esente il mondo della musica. “Oggi sono tutti influencer o fenomeni da baraccone, pagliacci vestiti da hipster. A scapito della personalità, quella vera, che dovrebbe emergere in modo naturale e non condizionata da ciò che vuole il mercato, o condizionata dal numero di like che genera solo frustrazioni. I like si comprano, quindi non ha senso misurare il successo con questi parametri. In questo contesto, che però ora è totalizzante e paralizzante, non vedo al momento vie d’uscita. Bisogna fissarsi degli obiettivi reali, cercare di definire la propria identità extra-social, mettersi il paraocchi per non farsi distrarre dai coriandoli della perenne festa che c’è lì fuori e cercare di fare le cose nella maniera più seria possibile. Alla fine la credibilità tornerà di moda!”.
DIY OR DIE non sembra insomma essere un’alternativa che ha esaurito la sua forza: c’è ancora una viva storia che si narra, forze attive sparigliate nel paese che da Nord a Sud ravvivano, credono e investono in artisti ed esperienze. Forse l’era post-internet ha cambiato alcuni parametri, e al vecchio modello di distribuzione delle label oggi si accompagnano canali come Spotify e Soundcloud, forse le fanzine si sono moltiplicate in webzine. Ma i locali underground continuano a resistere, e con loro le molteplici storie dei protagonisti nascosti di questa nuova generazione di eroi. La rete è fondamentale – ma tutto parte dalle tribù della nuova ondata indipendente italiana. Queste storie ci sussurrano che il DIY non morirà mai. Per concludere con le parole de Il Salada: “L’incertezza, la sorpresa, la scoperta, sono questi i valori che perseguo. Nella vita come nella musica. Che poi è vita essa stessa”.
A cura di Ilaria Del Boca e Giovanna Taverni