Quel paese ai margini e la sua dissidenza

Mentre mi perdevo tra le pagine di Un weekend postmoderno: Cronache dagli anni Ottanta di Pier Vittorio Tondelli, ad attraversare quel decennio insieme a lui mi è venuta voglia di mettere un disco dei Diaframma. Perché dovremmo ascoltare i Diaframma mentre leggiamo Tondelli?, vi chiederete con molta lucidità. Perché entrambi mi sembrano portare alla luce la narrazione di un’Italia parallela e underground che esisteva negli Ottanta, un’Italia sconfinatamente oscurata dai garofani che aleggiavano sugli schermi dove si trasmetteva Drive In. Tondelli ci racconta un’Italia sotterranea, nascosta, cita i CCCP come fautori del punk italiano filosovietico che si auto-definiscono “europei bianchi colti” in lotta contro la negritudine dei suoni americani; ci racconta gli Smiths e fa il verso a quello che riconosce come un’anima affine, Morrissey, si interroga sulle connessioni tra poesia e rock, citando Jim Morrison (“nient’altro come la poesia e le canzoni ha la possibilità di sopravvivere all’olocausto”) e Nick Cave, e si pone domande sul significato della cravatta sulla copertina di Horses di Patti Smith (= quanto sia stato sempre più difficile per un italiano medio nato nella stessa epoca liberarsi del fardello della cravatta, proprio mentre dall’altro lato dell’Atlantico diventava un simbolo di liberazione sessuale).

Sono passati solo una trentina d’anni da quei vituperati anni Ottanta italiani, e ancora oggi mi sembra che non siamo riusciti a toglierci dalla bocca il sapore di una doppia narrazione della realtà, come se esistessero veri e propri mondi incapaci di incontrasi e parlarsi. Negli anni Novanta se possibile è andata anche peggio, l’inizio del monopolistico ventennio berlusconiano ci fece a pezzi, lasciando davvero poco spazio per respirare aria nuova. Eppure qualcosa c’era nei nascondigli, anche in quei Novanta, dove emerse il vero significato della parola indie dai sottoscala, dai dischi dei Pavement, dal lo-fi, dalle guerre fredde – quelle sul serio – tra piccole etichette e major. Possiamo ancora immaginare quanto erano entusiaste le piccole etichette a quei tempi, prima che tutto il mondo si trovasse impantanato a soccombere nello strapotere dei grandi servizi di streaming.

Nel 1991 (mentre MTV scopre il grunge) esce Spiderland degli Slint per la Touch and Go Records. Come nel caso di The Velvet Underground & Nico è un disco per cultori, che non viene accolto subito calorosamente dal pubblico, le vendite non sono alte, ma col tempo diventa una specie di piccolo cult. Gli Slint dopo quell’anno si scioglieranno, salvo la reunion che li ha riportati insieme negli ultimi anni. Oggi gli Slint sono stati riscoperti, non da tutti, ma esiste una comunità che invoca Spiderland come uno dei dischi che hanno segnato un’epoca nei Novanta. Quell’attitudine slow-core che diede anche inizio al post-rock, nasce anche con Spiderland degli Slint. Ma si tratta pur sempre di un album che – subito dopo l’uscita – restò recluso nei sottoscala underground, e faticò a uscir fuori da un circuito di nicchia. [Noi lo riascoltiamo sempre volentieri]

Allo stesso modo di Spiderland l’Italia underground è un circuito che spesso, troppo spesso, resta nascosto. Anche se esiste. Nei suoi locali, o dentro le strade, nei piccoli ritrovi urbani (o provinciali che siano), e decisamente fuori dai grandi mass media come radio e televisione. Basti pensare ai grandi concorsi televisivi nazional-popolar-musicali che evitano di guardare in faccia queste realtà con cura (e quando provano a far finta di guardarle, in genere le inglobano e snaturano). Ma quando parliamo di questo agglomerato (sentimentale) di emarginazione (o – per dirla con Tondelli – di questi scarti), non ci riferiamo necessariamente alle periferie – è qualcosa che ha a che fare di più con la sincerità, con la ricerca della verità. E con la dissidenza.

Antonio Gramsci restò ai margini del nostro paese (tutto allineato all’ansia fascista) nel periodo della sua prigionia, eppure portò avanti la sua dissidenza anche dentro il carcere. Del resto, come ci ricorda Vaclav Havel, “un uomo non diventa dissidente perché un bel giorno decide di intraprendere questa stravagante carriera“, è una condizione interiore di rivolta, è l’avere a cuore i diseredati della terra, gli emarginati, è la pietà pasoliniana per l’altro. L’emarginazione forzata di Gramsci potrebbe essere una delle più grandi ispirazioni da cui ripartire. La lucidità con cui ha continuato ad affrontare il carcere, scrivere lettere e appunti sul paese su vecchi quaderni, studiare e cercare soluzioni – in poche parole resistere, è una delle più grandi eredità del Novecento italiano. Eppure sembra che ancora oggi in Italia troppi abbiano paura a scomodare il suo nome, mentre per paradosso all’estero i suoi scritti sono oggetto di studio.

In questa parte di paese ai margini, viva e complessa, ritroviamo le tracce di una dissidenza autentica. Imparare a dissentire entrando nel cuore vivo del paese è l’unica salvezza per questi tempi disincantati. Ma anche provare a mettere in contatto tutti i mondi possibili, perché un paese che racconta due direzioni senza farle parlare non riesce ad uscire dai suoi complessi. Facciamo parlare Gramsci coi fascisti, mettiamo Tondelli a parlare sul palco di Sanremo, trasmettiamo Spiderland a tutto volume nelle radio nazionali, mandiamo una delegazione di cattolici in un locale punk, e una di giovani hipster a messa. Ma questo è solo un piccolo racconto utopico.

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