Se ne parlano tutti deve avere colpito le parti più profonde, da quando abbiamo permesso ai social network di misurare la vita reale e che questa possa davvero adattarsi a ciò che sono le persone. Stesso errore di analisti e politologi, del resto, che amaramente si sono accorti che forse le possibilità di vittoria di Trump non erano così poche. Ci sarebbe andato vicino, diceva l’emerito Micheal Walzer, ma la rabbia sarebbe rimasta comunque. Anche Sartre aveva avuto i suoi abbagli sulla Russia di Stalin, lo perdoneremo. Quello che vorremmo indagare è, invece, l’abitudine a concentrarsi su determinati aspetti più evidenti tralasciandone altri. Lasciarsi influenzare, esattamente come la valutazione che diamo a uno sconosciuto in base a ciò che ha postato negli ultimi mesi, dall’apparente stabilità di un sistema retto su travi di argilla riposte nelle mani di un bambino. Nessuno avrebbe mai pensato davvero che un fallimentare uomo d’affari dal sorriso comico e la pelle di un colore immaginario, con un programma radicalmente ancorato a idee di un passato che vorremmo dimenticare, vessato dalla stampa e dagli utenti, fosse in grado di convincere la popolazione che, prima, aveva eletto Barack Obama, con tutti i suoi difetti. Quell’immobilismo sulle riforme, e la crescita insperata, cose che aveva promesso e poi era stato costretto ad abbandonare per l’ostruzionismo dei poteri più forti nei confronti dell’uomo più potente di un mondo stanco e arrabbiato di cui Trump è un degno rappresentante.
Tanto ai pochi, e poco agli altri, non è soltanto una stima sulla ricchezza del paese a stelle e strisce. È anche il livello di accesso alla cultura dove studiare senza borse di studio è un privilegio. Situazione che tende a cristallizzare certe sfere su se stesse quando il testo del messaggio non viene compreso, r poi ritirarsi nelle proprie stanze, sbarrando l’accesso finché è possibile. E retorica quella di chi ora dice che Bernie Sanders se fosse passato alle primarie ora non staremmo a parlare di terza guerra mondiale. Perché, se fossimo stati parte di quell’establishment non avremmo mai dato fiducia all’outsider. Come non avremmo fatto col ragazzino più piccolo, mentre si sceglievano le squadre a calcio nel parchetto che avevi appena conquistato, non certo per cederlo all’ultimo arrivato. Chiunque avrebbe preferito quello, magari, meno bravo ma più ragionevole, ai fini della vittoria. Se poi contro ti ritrovavi la squadra della chiesa potevi stare sicuro che motivi per rischiare non ce n’erano, visto che con quelli lì avresti comunque vinto. Poi ne prendi tre dopo dieci minuti. E dai la colpa al modulo, al fatto che proprio contro di te dovevano giocare i brasiliani in scambio culturale, dimenticandoti semplicemente che il problema sta nei piedi storti. Il distacco dal reale sta proprio in questa differente concezione che si sono imposte le cerchie pensanti, considerando che il solo fatto che bastasse la possibilità assurda e impensabile come l’addio dall’Europa con cui siamo cresciuti perché non accadesse. È proprio in questo scarto che il gioco si compie e gli incubi si rifanno sotto. Non appena la diffusione della cultura dorme, o decide di occuparsi solo di sé stessa, perde inesorabilmente la sua capacità di interpretare – e, così facendo, di salvare – il mondo che vive, con tutte le influenze del caso. Un’opinione pubblica forte è direttamente proporzionale al livello della sua capacità di autogiudicarsi, e di accesso ai mezzi per farlo.
Nel 1962 Jurgen Habermas aveva notato come l’evoluzione della cultura in cultura di massa avesse modificato, contemporaneamente, il modello di costruzione delle abitazioni. Non c’erano più la sala adibita al caffè, e allo scambio di idee, mentre andavano alla grande le sale da pranzo, in cui riunire solo i componenti della famiglia. Il privato che tende a imporsi sul pubblico. Per confrontarsi le persone avevano trovato altri luoghi, dall’agorà ateniese alla discussione da una parte all’altra dello steccato con il vicino. Comprendere come, allo stato attuale, tutto questo sia stato sostituito dal confronto sul web non è difficile. Il voto che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è stata la prima, e già rumorosa, crepa a un sistema che non è ancora riuscito a integrarsi completamente con il vivere quotidiano, pensando che le tecniche tradizionali potessero continuare a funzionare in eterno. Quando a un certo punto una storia d’amore si logora non c’è mai solo una responsabilità, gli esiti sono molteplici, c’è chi se ne va, chi magari si lascia, ma affronta il problema e chi, invece, si convince che il passato possa bastare finché il naufragio diventa inevitabile. La cultura ha mimato quest’ultima tendenza, finché non è stata trascinata sul fondo. A nulla sono serviti i sostenitori fra vip e intellettuali della Clinton, a Trump è bastata la voce roca di Clint Eastwood. Questo perché nella maggior parte dei casi si riferivano a un pubblico già convinto delle proprie posizioni, che fossero contro o a favore, stilando lunghe analisi e previsioni, pro e contro, mentre dall’altra parte c’era chi parlava quel linguaggio necessario, così vecchio da risultare nuovo. La prossima generazione che se ne andrà, quella degli anni ’50, sarà la prima probabilmente in cui moriranno più lettori di libri di quanti ne nasceranno. Così come sta già succedendo con i quotidiani. Questo non implica necessariamente un impoverimento culturale ma l’evidenza che il sistema si sta trasformando in altro. Dalla carta ai book reader, dalle copertine intrise di piombo a quelle delle homepage in slideshow freneticamente aggiornate. Parallelamente alla composizione materiale, è cambiato anche il modo di approcciarsi e come lo si mette in atto. A volte bastano semplicemente poche righe di un articolo per rendere qualcuno in grado di condividere la propria opinione, di ritorno a vecchie frasi fatte di cultura popolare, nel peggiore dei casi un flame si esaurisce in pochi mesi. Una moltiplicazione disperata di centri di influenza che si nutrono di loro stessi, mentre la percezione diretta della cultura che sa agire sul suo tempo è sempre più debole.
Come sempre accade quando un outsider vince, giornali e commentatori si mettono a svalutare la sua vittoria, considerandola più come una sconfitta dell’avversario. È un gioco di parole ostile e di grande comodo pensare che sia stata la Clinton o il Partito Democratico americano ad aver perso le elezioni, serve nell’immediato, per far cadere qualche testa e promettere un’opposizione dura e intransigente che possa rinnovare la fiducia perduta. Allo stesso modo delle colpe del modulo della partita con i brasiliani, ci vorrà tempo perché la vittoria di Trump venga considerata come l’effetto più diretto di un profondo cambiamento nelle aspettative, e nelle necessità, delle persone. La frammentazione politica e sociale dell’individuo, che non riesce più ad autodefinirsi con i propri mezzi, è il risultato di una perdita costante dei luoghi, e degli stimoli, che fondano il confronto e lo scambio di idee. La nostalgia, del resto, non manca nemmeno nel Make Great America Again, slogan della campagna repubblicana che si oppone terribilmente a quelli che avevano caratterizzato il periodo di Obama. Il ricordo di un passato glorioso, o soltanto la possibilità di credere che possa tornare, sono una giustificazione più che sufficiente per spingere qualcuno ad accettare alcuni compromessi.
In un denso e sincero articolo Claudia Durastanti scrive che: «Non aver avuto una formazione borghese classica, o creduto che i libri mi avrebbero resa migliore (dai libri volevo solo essere salvata) mi conferisce un privilegio: oggi mi aiuta a dire che non so se sono di sinistra. In realtà non so se lo siano i miei amici o nessuna persona che conosca; somigliamo tutti ad ectoplasmi del socialismo immaginato, riversi sul talamo funebre dell’Occidente, che vanno avanti per un riflesso quasi automatico di identificazione» e, oltre: «per questa cosa che sono diventata, dopo Trump e dopo Brexit, a cinque anni di distanza dalle primavere arabe e da quella destituzione di Berlusconi per volere europeo che invece di entusiasmarmi diede un colpo brutale alla fiducia che avevo nelle istituzioni, devo ancora trovare un nome». Brexit e Trump non sono l’affioramento definitivo del populismo, ma degli effetti che può avere all’interno di persone che non si riconoscono più in nulla. Gli strumenti che possiedono non gli permettono più di definire ciò che sono, da che parte stare e cosa, soprattutto, sia meglio per gli altri. Buchi neri che anche noi conosciamo bene. L’elettore di Donald Trump non è poi così diverso da quello che potrebbe esserne uno di Salvini o della Le Pen, non necessariamente sottoistruito o anziano, di destra o di sinistra, soltanto disperso. Una massa incontrollata pronta a esplodere e a decidere le sorti della propria storia, mentre gli altri voltano lo sguardo. Questi dispersi sono gli stessi che sono arrivati in piazza contro il presidente a New York, San Francisco e a Chicago, ma anche quelli di Occupy Wall Street. Più attivi della media, magari, ma destinati a sfaldarsi con la stessa spontaneità con cui si sono uniti. Quando hai un nemico evidente è più naturale opporsi, finché lo slancio non si affievolisce e, ancora una volta, ci si ritrova senza motivazioni per credere a qualcosa. La disillusione fa più vittime collaterali di quante ne faccia una forza populista. Anzi, da un certo punto di vista, se riusciremo a sopravvivere all’era Trump potremmo paradossalmente essere più preparati a fronteggiare i suoi esiti. Ma, ancora una volta, la questione culturale si fa decisiva. Questi quattro anni saranno duri, e impedire che il reazionarismo si conquisti definitivamente il ruolo di interlocutore sarà una delle principali sfide da affrontare. Investire su questi dispersi, prima che la disillusione li porti all’estinzione, dargli un modo per cui riconoscersi non sia necessariamente un prodotto di omologazione ma tutto il contrario.
Il voto americano ha evidenziato tutto quello che, presto, potrebbe toccare a noi, che pur ci siamo sempre fatti vanto di avere un apparato culturale forte, in grado di allontanare i rischi di qualcosa che è già accaduto. La deriva del populismo è, soprattutto, la crisi della cultura e dei suoi esponenti, non più in grado di raccogliere le descrizione della modernità, lasciando i suoi contemporanei da soli in un limbo senza definizioni in cui riconoscersi. È uno spettro con un raggio più ampio, che coinvolge tutte le sfere e hanno portato il reciproco scambio di opinione a un livello di prevaricazione sanguinosa, in cui tutti hanno ragione e nessuno ha torto. Mancano le sfere di influenza, i media generalisti più che informare si sono dedicati ad assecondare il processo di smaterializzazione dei tessuti dell’opinione pubblica. La retorica dell’uomo comune, in grado di poter agire attivamente nei processi decisionali di un paese, ne è la dimostrazione più diretta e, forse, meno pericolosa. Non lo è, invece, quella che spinge a seguire una maggioranza, a ritrovare nel populismo una sorta di dolce antidepressivo, in cui condividere la rabbia con qualcuno basta per non sentire tutta la propria solitudine e la disillusione verso le istituzioni. Fattori, anche questi, determinati dalla riproduzione di parole di altri che fanno leva, appunto, sulle mancanze e le assenze di un qualcosa in cui potersi riconoscere. O soltanto di qualcosa in grado di far comprendere e assimilare la propria condizione umana in questo tempo così confuso. Una corda, almeno, che invece di cingere un collo possa trascinare fuori dal labirinto. Non serve che la ragione dorma per scoprire che i mostri sono già dentro di noi, per quello basta guardarsi attorno.