No aceptar otro orden que el de las afinidades, otra cronología que la del corazón, otro horario que el de los encuentros a deshora, los verdaderos.
Julio Cortázar, Salvo el crepúsculo, 1984
«Leggi Cortázar e saprai da cosa ti sei salvato, ignoralo e sarai condannato, ma non saprai a cosa». Quando Neruda pronunciò queste parole, non poteva certo immaginare come questa frase sarebbe diventata, nel tempo, quasi una tappa obbligata dei percorsi che provano a raccontare anche un solo frammento dell’opera del grande scrittore argentino. Eppure nella sua espressione – così lapidaria come al medesimo tempo ermetica – Neruda è riuscito a cogliere, meglio di altri, l’unicità irripetibile di un artista centrale nella storia di almeno due letterature – quella sudamericana cui appartiene per diritto, per impegno (anche politico) e per vocazione e quella europea, nella cui cultura seppe muoversi meglio forse di molti altri che ne animarono gli anfratti intellettuali negli stessi anni.
Quando Neruda parla di salvezza e di condanna, lo fa perché sa che la scrittura di Cortázar ha molto a che vedere con i concetti di pericolo e incolumità, perché la salvezza è legata – in Cortázar – a un senso di bellezza che è il frutto di un lavoro tanto capillare quanto istintivo, in grado di unire – come nessuno prima di allora e forse nessuno dopo la sua esperienza – l’estetica del gusto letterario dietro la bellezza della pagina scritta con un valore altissimo di compenetrazione nell’animo umano.
Del resto, quello di Cortázar è un destino che lo vede sempre sospeso tra due mondi; lui in fondo, nato in un sobborgo di Bruxelles e vissuto tra Argentina e Francia – dove morirà, a Parigi – e allo stesso modo diviso tra un romanzo – Rayuela, tra i più grandi della letteratura di ogni tempo – e la sterminata produzione di racconti, fantastici certamente ma di raggio amplissimo. Cortázar sfugge a ogni possibile fermo immagine, come in uno dei suoi racconti più famosi, Le bave del diavolo – ispiratore del soggetto dietro Blow-Up di Michelangelo Antonioni – per lui non esiste realtà definita né tantomeno possibilità alcuna di cogliere con un solo sguardo la verità dietro l’apparenza delle cose.
La stessa fotografia, dunque, invece di essere la testimonianza fredda e immutabile di luce e materia impresse in maniera immutabile su un supporto fotosensibile finisce con l’essere soltanto l’ennesima superficie sulla quale si possono riflettere tutte le infinite variazioni del gioco del mondo. E proprio qui c’è tutta la grandezza dell’uomo, prima ancora dello scrittore: tutto ciò che in altri si sarebbe facilmente trasformato in asettica analisi delle possibili combinazioni del canone umano, in Cortázar trova una strada differente, attraverso una produzione artistica dominata dall’interesse sincero, dall’attenzione, dal calore, da una premura che accompagna da vicino la scrittura – la creazione – di ognuno dei suoi molteplici personaggi. È soprattutto dietro quest’aspetto che si nasconde una delle principali caratteristiche della poetica di Cortázar, grazie alla quale l’esperienza della lettura sembra quasi trasfigurarsi in una chiacchierata con un amico. In un racconto seduti a un tavolino di un bar mentre la sera cala davanti a un calice di vino che, insieme alla stanchezza, stempera ogni resistenza verso la confidenza e la sincerità.
Non fa eccezione Disincontri che torna in libreria per le Edizioni SUR (per la prima volta in un volume autonomo) – e che di Cortázar rappresenta anche l’ultima raccolta di racconti pubblicata in vita, nel 1982.
Disincontri è la traduzione molto libera dallo spagnolo Deshoras eppure se si guarda proprio al passo di Salvo el crepúsculo, ultimo libro pubblicato nel 1984, è un titolo che non tradisce affatto le intenzioni dello scrittore, quel suo collocare fuori orario, fuori dall’ordine dei percorsi obbligati, la sola possibilità degli incontri, gli unici davvero autentici. Fugaci, immaginari, vagheggiati momenti d’incontro, sognati o falliti, vicinanze del cuore, speranze di affinità elettive, amori inventati, ricordi trasfigurati dalla forza dell’infanzia, fotografie ingiallite strappate per un solo istante alla forza devastante dell’oblio grazie alla sola che vi si opponga, quella del ricordo ostinato e della fantasia senza freno.
Basta metterlo al plurale e cambia tutto, ti viene fuori una cosa nuova, non è più lo specchio o è uno specchio diverso che ti mostra qualcosa che non conoscevi
Perché è di questo che in fondo parlano i racconti di Disincontri: Messaggio in bottiglia è una lettera affidata al destino che ricongiunge Disincontri al precedente Tanto amore per Glenda, Fine Tappa un viaggio metafisico tra campagne e mostre d’arte in un pomeriggio poco a poco solcato da una tensione nascosta, Il secondo viaggio una storia di pugilato e di occasioni mancate, nella scia di Hemingway, sporcato appena di mistero, Satarsa una storia affascinante e terribile tra ratti giganti, personaggi in fuga e palindromi che cambiano il destino dei suoi protagonisti.
La bocca aperta in un grido che non riuscì a gridare
La scuola di notte è un distillato amaro di ricordi e fantasmi, racconto di formazione capovolta, attraversato com’è dall’incubo dei semi degenerati delle dittature militari; le stesse che invece troveremo compiute dentro Incubi, dove l’angosciante malattia di una ragazzina si fa specchio terrificante dell’orrore che si nasconde sotto la superficie delle mattanze sudamericane.
Tutto aveva un’aria come da night club, da cosa organizzata il sabato sera, i bicchieri e i posacenere, il grammofono e le lampade che illuminavano solo il necessario, aprendo zone di penombra che ingrandivano la sala.
Ed è proprio in quest’apertura di zone di penombra che Cortázar si rivela come un maestro assoluto del racconto. Quando amava dire che “un romanzo vince sempre ai punti, mentre un racconto deve vincere per knock out” nascondeva naturalmente i colpi per arrivare al momento del ko: lo stordimento assoluto, la fascinazione, l’incantesimo che deriva dalla sua capacità di irretire il lettore, di attirarlo nella sua rete fino a che il mondo esterno al racconto finisce con l’essere il solo fittizio mentre l’universo descritto nelle pagine si trasforma nell’unico che abbia dignità di esistenza.
Illuminare solo il necessario è la tecnica che – spinta con estrema naturalezza – allarga l’orizzonte di ogni possibile percezione, permettendo al lettore di riempire gli spazi di penombra, ciascuno con i propri ricordi, la propria esperienza, la verità assoluta – perché immanente e autentica – delle proprie emozioni che finiscono, esse stesse, col diventare parte integrante del racconto. È un meccanismo che, dal fantastico di molti dei suoi racconti, ci riporta indietro alla bellezza di quelli d’infanzia, all’incanto delle favole ascoltate da bambini, al potere dell’immaginazione.
E non è certo un caso se proprio il racconto che dà il titolo alla raccolta racchiude in qualche modo tutti i temi di cui sopra che sottendono l’intero volume: è un’immersione nei meandri caleidoscopici dell’infanzia, di un’amicizia purissima come solo sa essere quella dei bambini – una confutazione del tempo per dirla con Borges – che presto si tinge di amore adolescenziale, di speranze sul futuro, di un’età adulta che arriva a scompaginare le carte del sogno.
Di sicuro Anabel aveva bussato alla porta e io non l’avevo sentita, quando alzai gli occhi era accanto alla mia scrivania e di lei più di tutto si vedeva la borsetta di pelle lucida sintetica e due scarpe che non avevano nulla a che vedere con le undici di mattina di un giorno feriale a Buenos Aires.
A chiudere il libro invece ci pensa Diario per un racconto, affascinante ritratto di un traduttore di brevetti che arrotonda lo stipendio traducendo lettere tra marinai e prostitute e che finisce col trovarsi, suo malgrado, dentro una storia sospesa tra il melò e il noir; ma anche e soprattutto pretesto letterario per raccontare il mestiere di scrittore nel quale entrano la stima per Roberto Arlt e soprattutto quella per Adolfo Bioy Casares e spunti di riflessione sull’atto creativo: “Non mi ricordo, come potrei ricordarmi questo dialogo. Ma andò così, lo scrivo ascoltandolo o lo invento copiandolo o lo copio inventandolo. Domandarsi fra l’altro se non sia questo la letteratura”.
La nuova edizione si avvale di una delle traduttrici più importanti per la lingua spagnola, Ilide Carmignani, voce italiana – tra gli altri – di Luis Sepulveda e di Roberto Bolaño – “un fanatico di Borges che scriveva come Cortázar” per dirla come Alan Pauls – ed è lei stessa in qualche modo a spiegare il perché di una nuova traduzione:
«Mi capita spesso di ritradurre libri già tradotti, a volte vent’anni prima, a volte cinquanta. Un tempo immaginavo l’altro traduttore alla sua scrivania: Cesco Vian che addomestica “El perseguidor” di Cortázar e gli alza il registro nel 1965, in pieno boom economico […] Adesso invece, mentre traduco con fuori dalla finestra (e anche dentro) precariato, migranti e cambiamento climatico, mi chiedo chi sarà domani a ritradurre quello su cui mi sto sfinendo io, che ci sarà fuori dalle sue finestre, e soprattutto cosa di ciò che sto scrivendo verrà da lui giudicato vecchio o addirittura sbagliato. E prego san Girolamo di infondergli quella pietà che da giovani scarseggia.»
A voler in qualche modo sottolineare come – fuori da ogni furia giovanilistica e iconoclasta – ogni nuova traduzione rappresenti, grazie alla sensibilità di colei – in questo caso – che lo traduce, sì, l’omaggio fedele che porta in una lingua straniera – dentro un altro codice di segni e suoni – il messaggio, la voce, il racconto di un altro; ma anche l’elemento imprescindibile di un dialogo continuo e incessante tra l’autore e i suoi lettori, tra l’opera e il contesto in cui è nata e il mondo che la accoglie nell’universo in cui è nuovamente letta.
È così che la lezione di Cortázar trova la sua più pura ragion d’essere. Quella di un’ora e qui che trasforma la vita pulsante in pagine immortali dentro cui scorre una linfa che non può estinguersi.