«Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista», diceva Caparezza nel 2003. E aveva ragione.
I fratelli Lawrence, in arte Disclosure, sono riusciti a farsi ascoltare da milioni di persone sul web e in alcuni dei contesti musicali più importanti di oggi, come il Coachella, il Loollapalooza e il Sasquatch Festival. Tanto di cappello a Guy e Howard, che con Settle hanno ottenuto, facendo non poco rumore, la propria sedia all’interno del panorama ampiamente sfaccettato dell’elettronica da dancefloor (senza ricorrere alle etichette iper-composte e acronimate che vogliono dire quasi sempre la stessa cosa, che si legga house, deep house, dance, synthpop, IDM, future garage o altro).
Quello che piaceva tanto del loro album di debutto era probabilmente il fatto che, nonostante fosse un prodotto perfettamente adatto alle richieste del mercato, aveva un sound a tratti raw che sapeva tanto di genuino. C’è anche da dire, però, che i Disclosure non hanno mai presentato vere e proprie innovazioni, né hanno slegato lacci di generi ben distinti ma altrimenti amalgamabili tra loro. Settle rimane infatti fedele alla linea dei più esperti vicini di sonorità, da Sbtrkt e Burial, a Jamie XX, Mount Kimbie e così via, pur avendo quel tanto che basta a guadagnarsi un’identità propria, comunque importante punto di arrivo per qualsiasi artista che voglia definirsi tale.
Col senno di poi, credo che sarebbe stato meglio se si fossero fermati lì o ci avessero pensato di più prima di precipitarsi in studio a registare di nuovo. Probabilmente storditi dall’enorme successo, con l’aggravante della giovane età (all’uscita di Settle avevano solo ventidue e diciannove anni), i fratelli inglesi hanno lanciato il 25 settembre scorso Caracal, che se non fosse uscito dagli uffici PMR e Island ci avrebbero fatto una figura migliore.
Composto da undici tracce e impreziosito da featuring come quelli di Sam Smith, Lorde, The Weeknd e Nao, il secondo album dei Disclosure fa tutto tranne che confermare la riuscita precedente. Piatto e ripetitivo, ha estirpato ogni germe di caratterizzazione personale che sembrava avere un futuro nella loro prima produzione. Vocals anonimi e lamentosi peggiorano di molto la situazione, facendo sì che il risultato complessivo si presenti come qualcosa simile ad una triste raccolta di soundtracks per pubblicità di profumi maschili. In una parola, noioso.
È un peccato sprecare un’occasione importante come quella del secondo album, soprattutto quando contempla la possibilità di confermare o raddoppiare un grande successo, ma sembra proprio che i due dj non l’abbiano saputa cogliere, perdendosi nell’oblio della mediocrità e dell’ignavia (come d’altra parte capita fin troppo spesso a fin troppe promesse nel mondo della musica, e non solo).