Ci avevano lasciato con un disco cupo e diverso. Dave Longstreth, in crisi dopo la rottura con l’ex-compagna (di vita e di musica) Coffmann, sembrava voler dare una svolta solista alla carriera, riversando nell’omonimo Dirty Projectors tutte le sue inquietudini e prendendo con decisione la strada del soul e dell’r&b. E invece, dopo neanche un anno e mezzo eccoci qui: il figliol prodigo è tornato e i Dirty Projectors sono di nuovo a casa. Con una line-up rinnovata e le pene d’amore dimenticate, Lamp Lit Prose è il disco della restaurazione e della riconciliazione. Il richiamo alla vera essenza della band è chiaro già dalla copertina, che si rifà esplicitamente a Bitte Orca del 2009. Ma ciò che più conta è il ritorno prepotente del melting pot di stili e influenze, della voracità musicale apparentemente lasciata libera a se stessa, della celata ma chirurgica struttura strumentale che avevano dato non poco credito a Longstreth nell’universo dell’art-pop.
Lamp Lit Prose parte forte e ci regala subito il meglio sé, senza parsimonia. Dopotutto bisogna riconquistare i fan ancora con l’amaro in bocca. E così la chitarra folk e le melodie soul con tanto cori campionati in Right Now fanno da conciso ma gradito preambolo a un trittico di singoli da KO.
Break-Thru è il primo montante, il vero gioiello dell’album: sonorità prog e armoniche si combinano magistralmente con melodie elettroniche tutt’altro che scontate, influenze afro e cori in falsetto, nella tipica atmosfera indie e minimale a fare da sfondo.
Arrivano poi le chitarre latine, i fiati in stile anni Ottanta e le melodie soul che rimandano a Micheal Jackson. Gli assoli in pentatonica di That’s A Lifestyle e la ritmica elettronica di I Feel Energy sono altre perle, che Longstreth continua a regalarci in una coppia di pezzi più accessibili e orecchiabili, ma comunque notevoli per struttura e mix stilistico.
Mantenere questo livello è impossibile, ma il disco continua a proporre pezzi piacevoli e spunti interessanti. Come le chitarre grunge a braccetto con sonorità prog in Zombie Conqueror, a metà strada tra gli Who e i Jethro Tull. O gli accordi punk in maggiore di I Found It In U. O ancora i fiati soul di Blue Bird.
La chiusura prende un andazzo più rilassato e lascia spazio a sperimentazioni che strizzano l’occhio alla world music, con chitarre in levare e il sound r&b a farla da padrone.
Con il loro nono album i Dirty Projectors tornano a deliziarci con la grande capacità di elaborare impianti musicali e sperimentazioni che mescolano generi diversissimi tra loro, senza mai apparire arroganti o cadere nel virtuosismo grazie a una facciata pop che mantiene il contatto col pubblico. Il minimalismo indie è il fil rouge che lega il tutto, la cifra stilistica alla base che permette di combinare così tanti spunti senza sbilanciarsi in un’unica direzione.
Lamp Lit Prose riporta i Dirty Projectors sul taccuino delle band da tenere d’occhio e ci restituisce quindi il vero Longstreth. È forse il loro lavoro più mainstream e accessibile, ma comunque stimolante e, come sempre, tutt’altro che banale.
a cura di Edoardo Astori