Da Swing Lo Magellan sono passati cinque anni, e non si può dire che non sia cambiato nulla nel panorama della musica contemporanea intanto. Sono gli anni della black music, dell’r&b alla Frank Ocean, del soul elettronico, degli effetti vocali alla Bon Iver, anni in cui a un livello musicale globale si stanno affermando queste tendenze. Quel disco dei Dirty Projectors fu uno degli album più belli e originali nel 2012, con quel suo suono frammentato e schizoide, e registrava l’affiatata collaborazione artistica tra David Longstreth (piccolo genio contemporaneo del sound) e la compagna Amber Coffman, con quella doppia voce che era diventato un timbro di riconoscimento del gruppo.
Dirty Projectors è l’album della rottura del duo, il disco in cui Longstreth fa tutto da solo. David e Amber chiudono la loro storia e la loro collaborazione nel 2013, a pochi mesi dall’uscita di Swing Lo Magellan: seguirà un silenzio musicale troppo lungo, e poi finalmente l’uscita di questo disco, che sembra entrare in perfetta sintonia con quelle che sono le coordinate tracciate dal panorama musicale contemporaneo di questi anni. È come se Longstreth avesse voluto esorcizzare questo lungo silenzio-pausa in un unico grande sound che prende a man forte dall’esperienza dei vecchi dischi dei Dirty Projectors, mescolando quelle idee con le tendenze più black e originali odierne. L’uomo bianco incontra gli uomini neri, e li imita. Anche se la parola imitare risulterebbe limitata in questa occasione, perché Longstreth ha sempre avuto la vocazione a inventare – altrimenti non si sarebbe ritrovato a collaborare anche con il signor David Byrne (o con Bjork, Solange e Joanna Newsom).
“what I want from art is truth / what you want is fame” – Keep Your Name
Il disco in solo di Longstreth esce il 24 Febbraio per la Domino Records (ma il lancio è già stato anticipato da un ascolto in diretta full streaming sulla pagina Facebook), e si apre con il singolo Keep Your Name, una vera e propria invocazione a ritmi soul che a poco a poco si aprono in una contorsione hip-hop ricca di effetti vocali (“I don’t know why you abandoned me / You were my soul and my partner“) – anche se Dave tende a negare tracce biografiche della sua relazione con la Amber nelle poche interviste che sta rilasciando per promuovere il nuovo album. Il talento di Longstreth per i frammenti sonori che tendono a riunirsi in un unico grande disegno sopravvive tutto in questa primissima traccia.
Bisogna marcare l’attenzione sul fatto che parliamo di un disco molto corposo e da ascoltare in profondità, che sia difficile cogliere tutte le sfumature a un primissimo ascolto, che non siamo davanti a un disco da sottofondo serale, ma a un album che va a configurarsi tra i segnali di un’epoca. L’epoca di Kanye West, per intenderci. Dave Longstreth non ha mai mancato l’occasione di esprimere stima nei confronti di Kanye, nel 2015 ha lasciato il suo segno creativo-produttivo sulla canzone FourFiveSeconds, che ha visto la super collaborazione di Kanye, Rihanna e Paul McCartney.
E questa vocazione nigger di Dave si respira per tutto il disco. Consapevole che ormai siano queste le direzioni della contemporaneità non si lascia sfuggire l’occasione di mixare e lavorare sui suoni verso questa tendenza, e così nascono pezzi come Death Spiral, in cui se non si lascia sentire la mancanza della voce della Amber è proprio per le vibrazioni che Dave sta cercando: il rappato e gli effetti vocali provano proprio a sostituire il fantasma della voce perduta.
Nel 1990 esce la prima edizione di Signifying Rappers: Rap and Race in the Urban Present di David Foster Wallace (scritto a quattro mani con Mark Costello), in Italia tradotto con Il rap spiegato ai bianchi. Erano gli anni in cui il fenomeno era ancora agli albori, Costello e Wallace vivevano a Boston, e avevano provato a mettere su carta qualcosa che stava nascendo dal basso. Il rap.
La cazzuta genialità del rap sta in questo processo circolare, un loop quasi digitale: ha trasformato l’orrore del suo mondo – tradito dalla storia, bombardato da segnali contraddittori, violenti nella sua impotenza, isolato, claustrofobico e privo di vie d’uscita – ha trasformato questa specifica forma di orrore in una specifica forma d’arte d’avanguardia. Va persa la consolazione, ma si guadagna un nuovo tipo di mimesi, ruvida e spietata: Platone campionato mentre sta seduto sulla tazza del cesso. – DFW
Dai Novanta a oggi di tempo ne è passato, quelli che erano gli albori della scena rap si sono evoluti fino all’esplosione di questi anni. Un po’ come i canti dei coltivatori nei campi di cotone animarono il blues, e poi il rock. Se dovessimo usare un sottotitolo per questo album di David Longstreth/Dirty Projectors potremmo chiamarlo proprio il rap spiegato ai bianchi. Eccolo, come ci racconta la sua versione di questi tempi musicali contemporanei da americano bianco, immerso nel sogno americano del Make America Great Again.
Volete che vi spieghi la black music in versione bianca?, ci domanda provocatoriamente Longstreth, e lo fa con colpi di genio come Up In Hudson, seguendo lo stile di un R&B per voci bianche stavolta. La tendenza si accentua ancora meglio in Little Bubble, che fa il verso a Frank Ocean. Prendete questa traccia e dividetela in mille pezzi: ne uscirà fuori la grande capacità di Dave di metterli tutti insieme, e ottenere fuori un risultato che suona unitario. Ascent Through Clouds è un delitto perfetto al folk.
Quei frammenti dei Dirty Projectors che trovavamo già nei lavori precedenti ci sono ancora, ma sembrano essersi approfonditi, come se Longstreth avesse passato gli ultimi anni di silenzio – se si eccettuano le collaborazioni – a studiare i suoni della contemporaneità, a riaggiornare il suo racconto. Uno dei dischi su cui scommettiamo.