Dimmi che playlist ascolti e ti dirò chi sei

Le playlist che realizziamo quando tutto sembra finire al macero, non smettono di parlare di noi. Eppure, così facendo, diamo credito al falso mito del dimmi cosa ascolti e ti dirò chi sei.

Prima Youtube, poi Spotify. Impieghiamo il nostro tempo a selezionare infiniti brani per poi racchiuderli in un’unica playlist. Per lo studio, per il lavoro e per il tempo libero – o cazzeggio, che dir si voglia. Una per la mattina, una per il pomeriggio e un’altra per la sera, quando non abbiamo più alcuna serie tv da guardare o nessun libro da leggere. A più riprese si è fatto pressione sull’aspetto che una playlist personale qualsiasi altro non è che lo specchio di quello che siamo in realtà, ovvero il risultato di quello che siamo quando rimaniamo da soli con noi stessi. Dimmi che playlist ascolti e ti dirò chi sei è una delle battute più riuscite di questi anni. Un’evenienza, quest’ultima, rivelatrice di uno stato intimo che, a volte, riesce a spingersi oltre, proprio lì dove le migliaia di parole non riescono. Diventa pressoché naturale iniziare a spiare le playlist degli altri, un po’ come capitava al protagonista de Le Vite degli Altri di Florian Henckel von Donnersmarck.

A dire il vero capitava già con MSN – in cui era possibile, qualora fosse abilitata la funzione, visualizzare il brano che stava ascoltando in quel preciso momento chi si trovava dall’altra parte dello schermo. Anche Spotify consente di avere la stessa possibilità, rispolverando così quella vecchia usanza di guardare cosa ascoltano le persone che ci interessano. Anche in questo caso possiamo tranquillamente visualizzare i brani che stanno ascoltando le persone che seguiamo, in modo da tracciare una sorta di linea di confronto tra noi e quello che sono gli altri.

Le cuffie floreali di Lana Del Rey

Esistono così tutti gli elementi del caso per definire a pieno questo voyeurismo musicale, una sete incontrollata che sposta l’attenzione dapprima sul contenuto e successivamente sulla persona, su quello che popola i suoi spazi, su tutto quello che ne detta la forma, sulla propria vita al di là dei riflettori. Volendo azzardare un parallelo per qualcuno forse distante da quella che è la realtà dei fatti, le playlist – e più in generale i singoli brani che passano a rotazione – creano uno squarcio intimo nella persona che abbiamo dall’altro lato. Raccogliamo le sfumature di ognuno e iniziamo a realizzare piccoli viaggi all’insegna della definizione intima del nostro amico, del nostro conoscente. Se la singola condivisione sui social network risulta essere schiava – non per forza di cose nell’eccezione negativa del termine – di una censura ben studiata, lo scorrimento a valanga di ciò che stiamo ascoltando in un dato momento, privo di qualsiasi controllo, segna un distacco netto dalla forzatura messa in atto da quell’apparire obbligatoriamente in un determinato modo. In un certo senso subentra quasi una libertà che si sprigiona all’interno di una piattaforma di ascolto in streaming, niente di più spontaneo.

Su questo tema, MSN e MySpace sono state le prime a concedere una tale possibilità. Sotto gli stati e i nickname psichedelici – per via di quelle opzioni che facevano, per l’appunto, “tanto MSN” – comparivano brani tra loro sconclusionati. Sotto i fulmini punk e le fiamme metal, uscivano in sovrimpressione brani che nulla avevano a che fare con quello che non perdevano tempo a trasmettere alcuni profili. Personalmente ricordo gli Zeroassoluto seguire i Linkin Park – In The End su tutte – e via dicendo. Erano eventi inaspettati che ti procuravano uno di quegli strani effetti che si manifestano senza darti alcun tipo di preavviso. Oltre al «ma che sta succedendo nel mondo?» non si andava. È da eventi come questi che prende forma il voyeurismo dell’ascolto che abbiamo riversato poi nei social network. Il principio sopracitato del dimmi-cosa-ascolti-e-ti-dirò-chi-sei ha avuto un bellissimo periodo di gestazione, un periodo fatto di trilli e chat di gruppo da cui si poteva ottenere un numero infinito di contatti che fino a poco tempo prima non avevi, per poi scambiarci giusto qualche parola – non credeteci, non siate ingenui.

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Se da questo ha preso vita la nostra sete di sapere ciò che gli altri ascoltano, allo stesso tempo non possiamo dimenticare l’altra faccia della medaglia, ovvero il giudizio incontrollato che ci piace affermare quando tutto appare banale. Saltano fuori poltrone dalla seduta altissima, le stesse su di cui si siedono i grandissimi critici dei nostri tempi. Drake non va bene se passa dopo i Radiohead e St. Vincent proprio non può seguire Agnes Obel. Lo si nota da un chilometro di distanza che si tratta semplicemente di una playlist sbagliata, di una selezione di brani fatta un po’ a caso e che si trascina dietro con sè errori non poco marginali – non dimenticate che la motivazione dell’algoritmo impazzito salva sempre tutti, anche gli insospettabili. Lasciare un’impronta attraverso cui facilitare il riconoscimento di quello che siamo è necessario più di ogni altra cosa, e se hai a disposizione un mezzo di questa portata, non puoi concederti alcun tipo di errore. Morale della favola: hai una grossa possibilità, non giocartela male. Da questo fondamento ne conviene che ciò che passa, ciò che si sceglie di condividere, è pura realtà oltre la quale non è consentito soffermarsi. Il margine di errore? No, non è affatto concesso. Ma selezionando una playlist italiana a caso ci passa di tutto. Bene, vorrà dire che hai sbagliato ad assumere una tale noncuranza in merito alla questione. Gli altri ti vedono e sono pronti a studiarti in ogni minimo particolare.

Tutti abbiamo una playlist sbagliata. Brani inseriti a caso per davvero, consigli non graditi di ascolti che chiamano altri ascolti e che non smettono di presentarsi quando tutto è ben saldo su un’atmosfera completamente diversa da Cosmotronic. Mi è bastato cliccare una sola volta su Da Sola / In The Night che adesso me la ritrovo ogni giorno on air, come dicono alla radio. Allora, stando a questo voyeurismo musicale, io cosa mai dovrei essere? Cosa ci sarà mai nel mio inconscio? Chi sono per davvero quando mi ritrovo da solo con me stesso? Fossi uno di quelli super consapevoli della propria portata, delle proprie sicurezze, mi sentirei una divinità qualsiasi scesa in terra, eppure non sono in grado di dare nessunissima risposta valida. Sono quello che sono, con o senza playlist sbagliata. Passo dai The National a Calcutta, da Father John Misty a The Weeknd, fino ad arrivare ai Moderat e Jolly Mare – per citare alcuni esempi, ma ne potrei fare di numerosi – e proprio non ho il tempo per tirare delle somme.

È vero che riconosciamo la funzionalità di questo voyeurismo dedito all’ascolto degli altri, ma allo stesso tempo è anche vero che dentro di noi si insidia prepotentemente una lotta che scardina, in piccole dosi, frangenti di libertà assoluta di cui possiamo arrogarci il diritto di usufruire quando caspita ci pare. La consapevolezza di tale voyeurismo regala sì importanti occasioni di conoscenza, ma rende meno liberi chi dall’altra parte non sa come muoversi una volta divenuto schiavo di quel determinato modo di apparire, di una figura tale che non lo rispecchia affatto nel suo intimo. Per questo motivo, in quell’anfratto di pace e felicità che è il mio piccolo mondo – quella chance fatta di spudorata immaginazione che ti aiuta a tirare avanti – non me ne importa un fico secco. Ascolto e condivido quello che mi pare, con buona pace di tutte le playlist del mondo che sogniamo mentre ci addormentiamo davanti al widget di Spotify.

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