La seconda, attesissima, fatica dei DIIV si annunciava già come una delle gemme del nuovo anno, anticipata da ben quattro singoli (Dopamine, Bent, Mire e Under the Sun) rilasciati a partire da settembre 2015, che non hanno fatto che aumentare l’hype.
Dopo l’ottimo lavoro svolto nel 2012 con Oshin, la band newyorkese si è fatta attendere per quattro lunghi anni, segnati dalle vicissitudini del frontman Zachary Cole Smith, arrestato, tra l’altro, per possesso di droga insieme alla fidanzata Sky Ferreira. Un’esperienza, insieme a quella necessaria ed inevitabile della rehab, che segna fortemente i temi di questo Is the is are uscito il 5 febbraio. Un doppio album composto di 17 brani per una durata complessiva di più di un’ora in cui Zachary si mette totalmente a nudo, scavando dentro di sé e portando alla luce i suoi demoni interiori in nome di una avvenuta, o supposta, catarsi. Un disco ambizioso ma soprattutto coraggioso, in cui i temi della dipendenza, della caduta nel baratro e della conseguente, faticosa risalita vengono affrontati senza sconti e senza vergogna.
Già dai primi brani è evidente una forma canzone più definita unita ad un cantato più lineare, e se l’ispirazione arriva sempre dallo shoegaze, qui si vira decisamente verso un più apparentemente spensierato dream-pop di matrice late 80’s. Man mano che si procede con l’ascolto le atmosfere si fanno via via più cupe, e la struggente Blue boredom cantata proprio da Sky Ferreira segna come un punto di svolta e rottura. Le atmosfere rarefatte e psichedeliche tornano a farci visita anche se rallentate, quasi in slow-motion. Dal punto di vista compositivo, i testi sono una vera e propria pugnalata, e se in Dopamine ci si lascia andare ad una dichiarazione d’amore e dipendenza disarmante verso l’eroina, il riscatto arriva con la traccia che dà il titolo all’album e la confessione ”last time I walked down this street I wanted to die, now I fell like I’m fighting for my life”.
Se Oshin era una sognante cavalcata di riverberi e delay, da ascoltare tutta d’un fiato e senza sosta, in questo caso ci si trova di fronte ad un lavoro più complesso e maturo, che merita di essere ascoltato e riascoltato più volte con attenzione e con l’intenzione di superare ed arginare l’inevitabile calo di attenzione dopo la prima metà. La conclusiva ed emozionalmente devastante Waste of breath vi ripagherà dello sforzo intellettuale.