Torna Zachary Cole Smith insieme alla sua band, dopo 3 anni da Is the is are. Tre anni passati da Smith a combattere le sue dipendenze, sottoponendosi a un trattamento di lungo periodo per superare finalmente una situazione che si portava dietro da anni. I suoi problemi di dipendenze sono infatti diventati pubblici nel 2013, quando in seguito a un incidente automobilistico, lui e la sua ragazza di allora, Sky Ferreira, sono stati accusati, tra le varie cose, di possesso di eroina ed ecstasy (in seguito le accuse alla Ferreira sono cadute). Ma tutta l’esistenza dell’efebico musicista newyorchese, prima e dopo quell’accadimento, è stata in qualche modo problematica, segnata da assenze, vandalismo e da un’inquietudine perenne, forse dovuta all’abbandono della sua famiglia da parte del padre quando lui aveva 4 anni. Una giovinezza passata tra New York e San Francisco, attraversando più volte gli States in auto, facendo i lavori più disparati, alla perenne ricerca di qualcosa. Poi l’approdo, definitivo, a New York, nell’East Village, i primi contatti con la scena underground del posto: Smith suona un po’ in giro con i Soft Black e i Beach Fossils, prima di provare a fare qualcosa di tutto suo.
Nascono cosi i DIIV (il primo nome era Dive), esponenti di punta della scena indie di Brooklyn raccolta intorno all’etichetta Captured Tracks (Chris Cohen, Mac de Marco, Wild Nothing, tra gli altri). Il loro debutto, Oshin, nel 2012 viene salutato come un capolavoro: un disco veloce, scuro, revivalista degli anni ’80 della dark-wave dai Cure in giù, ma vicino agli umori della città degli Interpol. Da qui il glamour, Cole Smith diventa l’enfant prodige di un certo modo slacker cool di vivere: da un lato le sfilate per Saint Laurent, dall’altro l’undergound di una Williamsburg in via di gentrificazione. Da qui l’incidente, i primi tentativi di rehab, l’addio del batterista Colby Hewitt per problemi di droga e un secondo disco, Is the is are, nel 2016.
Arriviamo così a questo terzo lavoro, che presenta delle novità. Innanzitutto, un altro cambio di formazione: fuori il bassista Devin Ruben Perez, dentro Colin Caulfield. Poi, il contributo di tutto il gruppo alla fase di scrittura delle canzoni. Canzoni che parlano del passato e del presente di Smith, della difficoltà di ripulirsi, dei fantasmi che ancora gli corrono accanto. I toni usati per parlare del suo passato sono scuri, opprimenti: nell’iniziale “Horsehead” Smith canta: “I sat in a slump so my shadow sat slumped too“. Un’immagine di immobilità, di impotenza di fronte alle difficoltà. Ancora, riferendosi a se stesso, frasi come “You’ve been numb so long” (da “Between Tides“) o ancora “Shut away and getting thin, I was a stranger in my skin” (da “For the Guilty“). Tutto il disco è attraversato da riflessioni sulle scelte sbagliate, sul come queste l’abbiano portato a vivere in condizioni pessime. Questo intimismo non si trasforma però in autoreferenzialità: alcune canzoni sono infatti riferite a un tu, che a volte può essere solo un suo alter ego, in altre invece è aperto all’esterno. Come in “Skin Games“, dove c’è una condivisione nei versi “I can see you’ve had your struggles lately, Hey man, I’ve had mine too“, insieme a un tentativo di non isolare la propria tragedia ma di allargarla verso una condizione più generale.
Anche dal punto di vista prettamente musicale il disco rappresenta una novità nel catalogo dei DIIV. Molto più lento e hard, l’album è prodotto da Sonny DiPerri, che ha lavorato con Trent Reznor, My Bloody Valentine e M83, fra gli altri. Questa influenza si percepisce in una maggiore attenzione alla profondità rispetto alla velocità. Troviamo così uno spostamento dagli anni ’80 al decennio successivo, ormai entrato a pieno titolo nel calderone della nostalgia. I continui piano-forte di “Acheron” o “Like Before you Were Born“, ad esempio, sono una ricetta tipica del grunge di Seattle. Allo stesso modo, il riff di “Taker” si inserirebbe bene nel revival hard rock che portavano avanti, ai tempi, i Pearl Jam. La profondità delle chitarre, il loro dilatare gli spazi dell’ascolto mediante fuzz e feedback, è una componente fondamentale del disco, presente in quasi tutti i pezzi, ma soprattutto nella rumorista “Lorelei” (pezzo quasi slowcore) e nelle esplosioni di “For the Guilty“. Infine, canzoni come “Blankenship” o “The Spark” si rifanno maggiormente agli esordi.
Un disco maturo insomma per i DIIV, molto più curato rispetto ai suoi precedenti. Il rischio è che, dopo 10 canzoni e 44 minuti di durata, oltre a vertigini shoegaze e sussulti grunge, non rimanga molto. Ovvero, che rimangano suggestioni di qualcosa, vaghi richiami, ma non si riesca a capire di cosa in particolare: forse di un’idea del passato, forse non molto di più.