Il cinema nasce in bianco e nero e poi diventa a colori, ma le immagini in bianco e nero continuano a esercitare il loro fascino eterno, a catturare l’occhio. Non è un caso se tanti registi contemporanei continuino a preferirlo per i loro film, nonostante la possibilità di girare a colori. Abbiamo raccolto 10 pellicole in bianco e nero, dai vecchi film a quelli più recenti, ci siamo persi tra i grandi classici di Orson Welles e Kubrick, la Nouvelle Vague di Jean-Luc Godard e Agnès Varda, fino ai più contemporanei Control e Frances Ha. Sequestriamo per un po’ i vostri occhi e vi invitiamo a vedere un bianco e nero – oltre il bianco e nero.
Frances Ha – Noah Baumbach (2012)
I like things that look like mistakes.
Frances Halladay (interpretata da Greta Gerwig che ne ha curato anche sceneggiatura e soggetto) è una ragazza di ventisei anni che sogna una vita da ballerina a New York dove divide l’appartamento con Sophie, l’amica del college. Quando quest’ultima spicca il volo – professionalmente ed emotivamente, trasferendosi con il fidanzato a Tribeca – Frances è costretta, suo malgrado, a fare i conti con le proprie emozioni, frustrazioni e speranze. Tra coinquilini, cambi d’appartamento, lavoretti occasionali, un complicato Natale in famiglia, Frances cerca un difficile e precario equilibrio che la condurrà verso una nuova serenità. Film freschissimo e leggero come la corsa spensierata di Greta Gerwig sulle note di Modern Love di David Bowie, Frances Ha è un omaggio allegro e delicato alla Nouvelle Vague, nel suo bianco e nero, nella verità dei suoi personaggi, nella colonna sonora che pesca a piene mani dai capolavori di quel movimento, lasciando allo spettatore un senso insperato di tranquillità e sensazioni agrodolci. (Fabio Mastroserio)
Cléo dalle 5 alle 7 – Agnès Varda (1962)
Nell’ultimo periodo di quarantena, mi sono tenuta impegnata anche con quei giochi su Facebook un po’ scemi in cui racconti una parte di te attraverso immagini di film, quadri, libri. A me è toccato quello dei 10 film che hanno avuto un impatto su di me ed è stato impossibile non citare e ricordare Agnès Varda, scomparsa ormai più di un anno fa, e uno dei suoi film che piano piano si è fatto un posto tra le cose più preziose della mia formazione. Cléo de 5 à 7 è infatti il secondo lungometraggio della regista belga e – come da titolo – cattura due ore della vita di Cléo, giovane cantante che attende un responso medico cruciale per la sua salute e quindi per la sua vita. Sono due ore di tempo sospeso – come questo forse – in cui i pensieri di Cléo si muovono tra dubbi, riflessioni, si aprono nel canto. Cléo incontra tasselli della sua vita e un volto nuovo, speciale, sul finale, sullo sfondo di una Parigi degli anni ’60 bellissima e in un bianco e nero contrastato dal colore solo nei titoli di testa. (Martina Neglia)
A Girl Walks Home Alone at Night – Ana Lily Amirpour (2014)
A Girl Walks Home Alone at Night è il primo lungometraggio della regista di origine iraniana Ana Lily Amirpour. Partito da un crowdfunding e prodotto dalla Spector Vision di proprietà di Elija Wood, nel 2014 è stato proiettato all’anteprima del Sundance Film Festival dove si è guadagnato la distribuzione da parte della VICE films. La stessa regista lo ha definito “the first Iranian vampire spaghetti western” e già dai primi minuti la descrizione sembra calzare alla perfezione. Il bianco e nero qui è scurissimo e ruvido, le ambientazioni alienanti, a metà tra la Tangeri di Only Lovers Left Alive (a cui il film sembra ispirarsi moltissimo) e una provincia qualsiasi del Midwest americano, e la colonna sonora, perfetta in qualsiasi scena, sembra composta per la maggior parte da una versione persiana di Tom Waits. Come suggerisce il titolo, l’aspetto più evidente del film è però senza dubbio il messaggio femminista che permea l’intera pellicola e affronta molteplici aspetti in modo intelligente e mai scontato. Un horror atipico nelle cui scene iperboliche e grottesche è comunque possibile (a volte proprio inevitabile) riconoscersi. Una storia che scardina le trame tradizionali e supera i confini geografici, culturali e di genere facendo luce sui lati più controversi della realtà che ci circonda. (Veronica Ganassi)
Citizen Kane / Quarto Potere – Orson Welles (1941)
Il film che ha segnato una svolta nella storia del cinema e di Hollywood è, secondo tutti i critici dal 1941 in poi, Citizen Kane. Un film per molti aspetti maledetto: è la prima opera diretta, prodotta e recitata da Orson Welles a soli venticinque anni. È la parabola del magnate Charles Foster Kane, editore di un giornale, il New York Inquirer, le cui ambizioni politiche falliscono miseramente per una tresca. È la storia dell’inchiesta condotta dal redattore di un cinegiornale, Thompson, sul significato delle ultime parole di Kane prima di morire. È un ritratto, spaventosamente attuale, delle dinamiche del giornalismo ma nel quale i giornalisti sono del tutto insignificanti. È un kolossal per la critica, con nove candidature all’Oscar, ma non per il pubblico. È un racconto che comincia dalla fine, in cui tutte le regole della struttura narrativa cinematografica – fotografia, riprese, montaggio – fino ad allora conosciute sono state ribaltate. È un delicatissimo esercizio di concentrazione per lo spettatore che deve seguire meticolosamente, quasi ossessivamente, ciascuna sequenza. È un film di cui l’unica cosa che resta è la devozione smisurata che Welles nutriva per la cinepresa. Quasi quanto per il suo ego. Consigliatissimo per la quarantena. (Alessia Melchiorre)
Manhattan – Woody Allen (1979)
Pensa a me come a una deviazione sull’autostrada della vita – Manhattan
“Capitolo primo: adorava New York. La idolatrava smisuratamente… Ah, no. È meglio: la mitizzava smisuratamente, ecco. […] No aspetta, ci sono: New York era la sua città e lo sarebbe sempre stata”. Prima di darsi a patinate attività pro loco delle capitali europee, Woody Allen ha girato un’enorme e bellissima dichiarazione d’amore alla sua città di origine. Manhattan è soprattutto un film di relazioni, ma la prima, quella fondante, è con un luogo e la sua inafferrabilità. Non a caso Ike, sceneggiatore televisivo in crisi, ambienta a New York il suo romanzo su “valori in sfacelo” e sulla “sionista castrante”, la madre. Ossessivo e brillante come sempre, Woody/Ike ha dubbi sulla sua attitudine affettiva: non ha mai avuto una relazione che sia durata più di quella di Hitler ed Eva Brown. Tra una mostra al Moma e una fuga al Planetarium, tra un’alba su una panchina a guardare il Queensboro Bridge e un temporale elettrico in carrozza a Central Park, l’incapacità e il terrore di darsi: a Tracy, splendida attrice 17enne, o a Mary, giornalista saccente e nevrotica, è lo stesso di appartenere, radicarsi al suolo e superare il distacco di un’isola dal resto del mondo. Come la gente a Manhattan “che si crea costantemente problemi veramente inutili, perché questo le impedisce di occuparsi dei più insolubili e terrificanti problemi universali”. Il bianco e nero è un omaggio a Bergman: ci sono certe cose per cui vale la pena vivere, tra tutte il viso di Tracy, esaltato da un intimo e avvolgente chiaroscuro. (Simona Ciniglio)
Rashomon – Akira Kurosawa (1950)
Certo, Akira Kurosawa aveva già diretto diversi film prima di Rashomon del 1951 (alla lettera “porta delle mura di cinta”), tuttavia è proprio con questo lungometraggio che il maestro del Sol Levante firma il suo primo grande capolavoro oltre che il film ha fatto conoscere il cinema Giapponese a livello internazionale. Ennesimo atto d’amore di Kurasawa per la Settima Arte anglofona, Rashomon risente dell’influenza artistica straniera pur tenendosi ancorato alle regole archetipiche del teatro No, ed è un racconto formalmente perfetto e in anticipo sui tempi che si addentra nella psicologia dei suoi personaggi in un modo che negli anni subito successivi avrebbe fatto scuola a molteplici cineasti. La trama ci conduce in una Kyoto medievale flagellata da una tempesta, precisamente davanti alle porte di un tempio dove hanno trovato riparo tre individui che passeranno il tempo a raccontarsi un processo a cui hanno partecipato in qualità di testimoni. La rievocazione dei fatti porterà i protagonisti a realizzare che la verità è molto più complessa e contraddittoria di quello che sembra. Strutturato per flashback sincronici, Rashomon ha una struttura da giallo in cui il caso è destinato a rimanere irrisolto, dove la verità pura e semplice è impossibile e al contempo metafora di parola inaffidabile e manipolata. La morale pessimista di questo film spavaldo e vitale (chiunque ha un punto di vista mutevole a seconda dei propri comodi) gioca anche con il concetto meta-cinematografico del regista inattendibile quanto i tre narratori, lasciando lo spettatore pieno di dubbi succulenti su cui meditare affiancati da una spettacolarità visiva discreta e da un minimalismo recitativo vicinissimo all’etica del cinema muto. (Riccardo Antoniazzi)
Il dottor Stranamore – Stanley Kubrick (1964)
Negli anni della Guerra Fredda sono stati tanti i film americani che ne hanno ipotizzato le sorti, spesso con i toni di un patriottismo stomachevole e demonizzando l’avversaria Unione Sovietica. Kubrick si stacca da quel prototipo, artificioso come prodotti già confezionati, auto-celebrativi e di facile commistione, e in tutta risposta nel ’64 esce nelle sale americane Il Dottor Stranamore, solo due anni dopo la crisi dei missili di Cuba. Di fronte all’assurdità della guerra, combattuta con le armi nucleari, il regista ricorre al suo mezzo di espressione più congeniale alla situazione: il grottesco e la commedia. Il Dottore Stranamore è una satira intinta nell’assurdo, che mette a nudo le psicosi belliche del Novecento e funge da promemoria per ogni smania di guerra nel nuovo millennio. Ne Il Dottor Stranamore il processo di ridicolizzazione dell’impresa bellica non è rivolto tanto alle legittime insicurezze relative ai sistemi di sicurezza, oppure ancora alle falle nelle procedure militari, né tantomeno al popolo (che è del tutto assente nella pellicola), bensì alla classe dirigente che ha il potere: sbeffeggiata fino all’osso o per la sua incapacità di governare, o per una cieca paranoia che sfocia nel bellicismo più bieco. Sembra ormai risalire a un’altra vita, ma non dimentichiamoci che solo a gennaio la possibilità di una guerra tra Stati Uniti e Iran non sembrava così remota. A quasi sessant’anni dall’uscita del film, la pellicola di Kubrick ci turba per la sua attualità, dissacra la galleria di imbecilli che hanno il potere ma non sanno esercitarlo, e ci ricorda con una buona dose di cinismo la labilità del genere umano. (Sara Deon)
Viaggio in Italia – Roberto Rossellini (1954)
Viaggio in Italia è il capitolo conclusivo della trilogia della solitudine di Roberto Rossellini, dopo Stromboli e Europa ’51. Anche qui, come per le altre due pellicole, protagonista il volto eterno e algido di Ingrid Bergman catturato dal bianco e nero abissale del regista italiano. Una coppia di inglesi scopre la propria estraneità e crisi relazionale durante un viaggio a Napoli, solo dopo un’odissea di solitarie fughe a Capri e esplorazioni della città e i suoi spazi, sarà capace di riscoprirsi – tra l’eternità degli scavi di Pompei e una processione religiosa. Se in Stromboli l’elemento naturalistico del vulcano si imponeva per ricordare la brevità della vita, qui è il pellegrinaggio umano tra epoche, storie e visioni a gettarsi nel cuore dei protagonisti per riconciliarli. Viaggio in Italia riesce a unire la vocazione documentarista del Rossellini degli esordi, e quella speciale sensibilità di narratore per immagini con cui è riuscito a scavare tra storie e sentimenti umani. Film non particolarmente amato dalla critica dell’epoca, ma che ha aperto le porte a nuove possibilità per il linguaggio del cinema. In fondo, come diceva qualcuno: non si può vivere senza Rossellini. (Giovanna Taverni)
Control – Anton Corbijn (2007)
Quando penso al bianco e nero il primo nome che mi viene in mente è quello di Anton Corbijn. È una reazione fulminea e involontaria, tanto che se mi volto indietro non saprei neanche individuare il momento esatto in cui l’ho conosciuto, un po’ come i Beatles. Sono decine le sue fotografie che non mi stancherei mai di guardare, da Nick Cave che fuma in compagnia della sua ombra proiettata su un capanno, allo sguardo ipnotico di PJ Harvey in pelliccia, passando per David Bowie ritratto come un pensieroso San Sebastiano. La sua opera a cui sono più affezionata lo vede però dietro alla macchina da presa: Control è un biopic del 2007 che racconta la carriera di Ian Curtis, qui interpretato magistralmente da Sam Riley, dagli inizi con i Joy Division (ancora Warsaw) al triste epilogo che tutti noi conosciamo. Corbijn, che nel 1988 proprio per la band di Salford aveva diretto il videoclip di Atmosphere, segue il romanzo autobiografico di Deborah Curtis (moglie di Ian) e ne ricava un documentario crudo e asciutto, lontano dalla pericolosissima trappola nostalgico-devozionale. Un film che tra la desolazione della remota periferia inglese e i palchi europei racconta di quel vuoto incolmabile che ritroviamo con la stessa violenza in Closer e in Unknown Pleasures. (Veronica Ganassi)
Le petit soldat – Jean-Luc Godard (1963)
Le petit soldat è, per numerose ragioni, uno dei film più significativi della carriera di Jean-Luc Godard, nato per rispondere alle accuse della mancata presa di posizione della Nouvelle Vague nella politica del tempo per poi trasmettere l’importanza del cinema nel raccontare le emozioni individuali che determinano – e forse superano – la scelta idealistica. Poco tempo dopo l’uscita di Fino all’ultimo respiro, destinato a riscrivere la storia del cinema europeo, Godard sceglie un discorso complesso come la guerra di indipendenza algerina per raccontare la storia di Bruno, un militante di estrema destra, in una pellicola che si mescola fra lo spymovie e il racconto rivoluzionario. Incaricato dell’uccisione di un giornalista ostile si ritroverà immerso nello stravolgimento del quotidiano con un’unica scelta, lottare per la propria causa, l’amore per Véronica – in cui si segna il debutto della musa par excellence Anna Karina – , o per un impegno ‘più grande’ ma non necessariamente migliore. Godard rifiuta le parti per stravolgere la politica, venendo accusato di disimpegno e tradimento, per rimarcare l’importanza del cinema come chiave (sic) per interpretare il presente. Considerare Le petit soldat come il film ‘politico’ di Godard è forse aver dimenticato la politica stessa, fatta di emozioni, di opinioni e di un’estrema – e imprevedibile – lotta al dato di fatto. (Francesco Pattacini)