Quando mi hanno chiesto: ”mi mandi una lista di dischi indie folk da ascoltare?”, ho pensato che in fondo sarebbe stato utile diffonderla anche ai dieci lettori de L’indiependente. Del resto, oggi che senso ha scambiarsi privatamente una lista quando possiamo condividerla con chiunque? Che sia grazie ai social, o a un giornale online su cui tutti hanno opportunità di scrivere, sarebbe importante tenere a mente una cosa: ogni domanda con richiesta di consigli che vi viene rivolta, può essere trasformata in un articolo. Ogni articolo ha un suo senso preciso, è utilitaristico, e può servire senza ordine: ad accrescere il proprio ego, ergersi a fini conoscitori della qualsivoglia, dimostrare le proprie capacità stilistiche /estetiche /morali /giocolieristiche /umoristiche /folkloristiche /grammaticali, fare share, ottenere like e complimenti, ricevere critiche raffinate, promuovere se stessi, eventualmente finire a Reno in Nevada (the biggest little city in the world) a far carriera. Insomma, ogni domanda che vi vien posta è un’opportunità che non potete perdervi. Ma anche sticazzi.
Già, ma che diavolo è l’indie folk? La domanda mi ha creato qualche problema, anche se immediatamente mi è venuto in mente Bonnie Prince Billy, cioè Will Oldham, cioè quello dei Palace, dei Palace Brothers e dei Palace Songs. Quello di Bonnie Prince Billy & The Cairo Gang. Ora, avrete intuito che la discografia di Will Oldham è immensa, perché gli indie folkers son fatti così, prendon la chitarra in mano, cacciano fuori qualche lamento su una decina di accordi, e pretendono di aver scritto una canzone. E’ una cosa da cui io ricavo anche del piacere, intendiamoci. Ma come faccio a consigliarla davvero senza sentirmi rispondere in cambio un ”che palle”? Se vogliamo andare sul sicuro con Oldham converrebbe ascoltare I see a darkness, anche se io personalmente mi giocherei un altro album: The Letting Go. Ma andiamo a capo. Dobbiamo assolutamente arrivare a dieci dischi. Dieci. Il dieci è importante nella numerologia di un articolo, è l’equivalente delle terzine per un profeta.
Il nostro viaggio nell’indie folk è iniziato con tale Will Oldham da Louisville (la città che fu pure degli Slint, che scelsero altre strade rispetto a quelle dell’indie folk). A questo punto diventerò immensamente banale e nominerò Bill Callahan, che agli esordi flirtava di più con il folk rock e l’alt (tempi in cui frequentava la voce di Chan Marshall e si chiamava Smog), e poi si è mutuato in vero indie folker a nome Bill Callahan (tempi in cui frequentava quell’arpista usignolesca di Joanna Newsom, che se volete potete considerare come la numero undici di una lista che non c’è). Sometimes I wish I were an eagle, Apocalypse e Dream River son tutti e tre capolavori in questo senso.
Poi bisogna fare i conti con Jason Molina. Ora, quando parliamo di indie folk parliamo di un numero consistente di progetti che nascono e muoiono continuamente. Nomi che bisogna imparare a memoria, collegamenti che col tempo si imparano a fare, e che non serviranno a un bel niente a parte allenare la memoria storica. Per esempio a Jason Molina bisogna associare: Songs:Ohia, Magnolia Electric Co., Molina and Johnson e Jason Molina semplice. Io metto spesso The lioness. Ma non è detto che dobbiate farlo anche voi.
Sviscerare cos’è l’indie folk in realtà è una faccenda complicata. Mi sono resa conto che in realtà non sapevo delinearlo con precisione. Prendiamo il caso di Elliott Smith: quanto ha a che fare l’indie folk con il lo-fi? Secondo l’Urban Dictionary le band che fanno indie folk combinano l’indie rock e pop con la folk music dei ’50 e ’60 (e artisti come Dylan e Drake). Queste band non usano le tastiere e i sintetizzatori. Ma io Elliott Smith l’ho sempre sentito come un continuatore dei Beatles piuttosto. Anche se folk poi è una parola che non significa davvero nulla, anche i Beatles possono essere folk, o i Metallica. Comunque sia, piuttosto che parlare di Elliott Smith parliamo di Bon Iver e The Tallest Man on Earth.
Justin Vernon aka Bon Iver esordisce al pubblico nel 2007 con un piccolo capolavoro, For Emma Forever Ago, prima di iniziare a mischiare altri suoni ai suoi lavori successivi. C’è la chitarra, dio santo, e c’è una voce meravigliosa. The Tallest Man on Earth è il continuatore della lezione di Bob Dylan. Lo si capisce chiaramente sin dall’esordio Shallow Grave. Se ci lasciamo sedurre subito da pezzi come Skinny Love e Where do my bluebird fly tutto sembra più chiaro.
Andando a ritroso nel tempo Our Endless Numbered Days degli Iron & Wine sembra essere un piccolo cult in questo senso. Il problema sta tutto nel cercare di separare rock e folk. Per esempio, che diavolo è uno come Devendra Banhart? Tutti e due magari. Un pezzo come A Sight To Behold per esempio è folk. Ma mi rendo conto che in questa matta ricerca impazziremo tutti. Più inquadrato uno come M. Ward.
E così quella che doveva essere una lista di nomi si trasforma in una ricerca che non ha senso.
I The Lumineers, i Decemberists, e quei Fleet Floxes da cui si svincola Father John Misty. Ed entriamo nel novero della tradizione folk indie con la barba e la chitarra. Ve lo ricordate Josh T. Pearson? Last Of The Country Gentlemen del 2011 ci aveva emozionato. L’altro Josh, padre Tillman è tornato proprio da poco con un disco che è quasi tutto imperniato sui suoni dell’indie folk (anche se ci sono pezzi come True Affection che fanno altri discorsi). In questa tradizione potremmo annoverare anche l’ultimo arrivato, James Vincent McMorrow, che io personalmente non capisco ma son problemi miei.
Per non dimenticare le donne, negli ultimi tempi Angel Olsen (che però a tratti è rockettara) e Waxahatchee, hanno dato man forte alla tradizione femminile di donne con la chitarra. Se abbiamo voluto escludere per un soffio Cat Power, che pure sarebbe rientrata con un po’ di sforzo, ed escludere per strumentazione Joanna Newsom, che però il folk te lo fa soprattutto pure con l’arpa, il rapporto donna/chitarra diventa sempre più fondamentale.
Ma quindi l’indie folk è legato alla chitarra acustica? Beh no.
Ricominciamo daccapo: che diavolo è l’indie folk e come si fa a chiedere una lista di album indie folk? Parliamo di Mark Kozelek, per dire. Coi Red House Painters fa slowcore, o alt-rock, o tutta quella confusa classificazione di generi che ci fa solo perdere tempo: insomma, fa belle cose diverse da quello che fa oggi da solo a nome Sun Kil Moon.
Ricordati di Vic Chesnutt, sussurra una voce. E non dimenticarti che potrebbero anche rientrare i Neutral Milk Hotel, che in fondo la chitarra la suonavano, che in fondo registravano male (ma anche la registrazione è un criterio?), che in fondo sono degli apripista veri. Non dimenticarti di Jeff Mangum, e tutti quelli che si smarcano da una band per fare i solisti con la chitarra (J Mascis rientra in certi pezzi?).
Ricordati dei Cave Singers. Ma anche di come l’indie folk a tratti possa risultarti indigesto. I Mumford & Sons prima dell’annunciata svolta elettronica? E il nuovo album di Sufjan Stevens, Carrie & Lowell, che va ascoltato anche millecento volte.
Sono arrivata a una conclusione: l’indie folk non esiste.
Foto copertina: Moses Namkung, Avett Brothers