Si tratta sempre di una questione di equilibrio. È la componente alla base di una band, come mi ricorda Erica, mentre siamo al telefono il 20 febbraio. Lo è, praticamente, di ogni cosa, dalle canzoni ai racconti. Anche di questo probabilmente.
Come mi accorgerò anche prima del live del primo marzo nel minuscolo camerino del Covo, i Be Forest sono tre tipi differenti di timidezza che si concentrano nella composizione ed è, contemporaneamente, ciò che li rende una di quelle band in cui è difficile entrare. Non solo musicalmente. Quando io ed Erica ne parliamo, di quella che potrebbe essere presa per rigidità, mi spiega che in realtà è ciò che sono e che, in qualche modo, sono al corrente di poter essere fraintesi, fa parte del gioco, sono lì per esibirsi e solo quello dovrebbe importare. Un misto fra terrore e concentrazione che lascia spazio a poco altro. Abbiamo la stessa età e capisco che certe cose possano dare ancora fastidio quando te le senti addosso. Dal 2010 – e non dal duemilanove – quando si sono formati e hanno inciso e dato alle stampe Cold un anno dopo, i Be Forest si sono ritrovati a fare i conti con l’etichetta che piace alla critica e a un certo tipo di pubblico generalista. Quella storia dei ragazzi di Pesaro che suonano come gli stranieri. Per questo le chiedo se non sia più uno svantaggio, che altro, essere italiani. Ci pensa un po’, ragioniamo sulle possibili differenze di pubblico, ritorniamo al principio, come un serpente che si morde la coda.
Nicola mi spiega che a lui interessa solo suonare, che fa fatica a parlare per quello. Stiamo scendendo le scale verso il furgone, dove riesco a incastrarlo per fargli una foto. Dentro al Ford nero, di cui va così fiero, è più facile, dentro casa, si sente al sicuro. La zona x, come il palco o la saletta. Ci scherziamo su, poi ci raggiungono gli altri.
Erica mi aveva raccontato che il loro è un approccio immediato alla composizione, che nasce in sala, di scritture e riscritture che, poi, per una ragione o per l’altra ritorna sempre sui suoi passi, alla prima versione, come per lasciare intatta la sincerità e l’idea di cui gli arriva un brano. È accaduto così per Knockturne e forse è proprio ciò che lo distingue da Earthbeat. Non avevamo nessuna traccia, nessun punto zero, continua, non c’è stato effettivamente una pausa in quei cinque anni che separano i due album. Solo un tempo di tregua immediatamente successivo al tour. Poi sono tornati in studio, come la prima volta. La saletta ha per Erica lo stesso valore che ha il furgone per Nicola, inteso come punto di partenza e di arrivo. All’inizio non si conoscevano e suonare – ancora una volta – è stato il metodo con cui è riuscita a rompere il ghiaccio, a conoscerli, a prendere confidenza con lo strumento così come è stato per Costanza. Costanza è forse quella che a cui pesa di meno, forse perché col tempo, col fatto di essere il punto verso cui il pubblico guarda più naturalmente, si è abituata. La sera del concerto mi dice sorridente che è soddisfatta di Knockturne, che gli pesa meno suonare dopo aver trovato una linea diretta in cui raggiungere l’equilibrio. Con Erica abbiamo parlato della realtà ipnotica – abissale mi dice, riprendendo una recensione – in cui il loro ultimo album può gettare l’ascoltatore. Il richiamo teatrale della cover, forse, ne è una parte. La musica per i Be Forest funziona come la recitazione per un attore, nel suo senso più puro di essere trasmettitore di sensazioni. Seguono le parti che hanno già costruito, provato e portato in tour, lasciando al centro dell’attenzione più che la recitazione, il messaggio – un’atmosfera in questo caso. Sicuri, in qualche modo, che sia quello il modo giusto per parlare di loro stessi. Il proprio modo di interpretare, forse quello più vicino. Il primo marzo partono così. Con le stecche che colpiscono violente il tamburo. Sono tesi, forse arrabbiati, forse è la loro carica emotiva che si scarica lungo l’esecuzione.
In Knocturne, per la prima volta, Erica si è occupata anche della produzione, insieme a Steve Scanu, l’ha seguito passo passo fino al master di Josh Bonati. Nelle ritmiche il suo tocco è evidente, più sicuro, come le chitarre di Nicola, più distorte e concentrate a restringere il campo in loop scurissimi. Le chiedo se sia un fatto di maturità, mi risponde che forse solo fra qualche anno saranno in grado di capirlo e restringerlo a una particolare situazione, come è stato anche con Earthbeat e, prima ancora, con Cold.
Sono i colpi di Empty Space, no? Che rompono a metà la struttura di Atto I, e l’esplosione di Bengala, in quello successivo. Sono le storie che troviamo e che riaccadono, da cui transiti e spesso è complicato comprendere. Le storie di questi ragazzi di Pesaro.