Cover Story #2 – Diario indipendente

I protagonisti

Movimento, alternativa, risposta, condotta, reazione, status quo, rovesciamento.

Indipendenza è una parola di contraddizione che si nutre dei suoi stessi paradossi e si fonda su confini mai veramente chiari. Lo scontro politico, la pretesa letteraria, l’immagine cinematografica, il colpo musicale sono alcuni dei frutti di questo albero che continuamente fiorisce, avamposto permanente di primavere, lungo gli inverni e la caduta delle foglie. Parlare di indipendenza, di questi tempi, è un’azione imprescindibile per riuscire a orientarsi e a non perdere la parte essenziale del proprio essere. Un’abitudine che contribuisce a formare quel senso del dubbio che spinge a ricercare risposte nella collettività, non più come individui persi nella fluidità delle relazioni e dei rapporti con le autorità, ma come forza pensante e informata che, oltre alla montagna e ai giganti, è in grado di muovere pretese legittime per tutti. Indipendenza è, in fondo, una parola che si fonda sulle sue sfumature, e che guadagna autorità solo quando entra nel linguaggio comune e viene preservata come energia pulsante. È speranza per il futuro, anche quando tutto sembra buio, e ricordo che vive per il presente, per chi tende a dimenticare e a riproporre gli errori del passato.

Diario indipendente si muove su questo paradigma, cercando di investire le proprie risorse su chi conta di più: il lettore, la figura silenziosa che si nasconde, nel tentativo di rinvigorire la fiamma mai taciuta delle rivoluzioni prossime e di quelle ancora sognate, quelle incise nelle parole di Roberto Bolaño per cui la letteratura non è mai innocente perché, aggiungiamo noi, costringe a creare mondi impossibili che sedimentano e trasformano le nostre percezioni. Un collegamento naturale alla sua seconda patria, a Barcellona e la Catalunya intera, il profilo spagnolo irrorato di sangue à la Hemingway, la cui risposta indipendentista è arrivata a un punto finora mai raggiunto, un vento, come leggerete, che indaga nel profondo dell’intimità e raggiunge persino noi, in questa necessaria rivalutazione di ciò che significa appartenenza e libertà. Uomini di più mondi come Pablo Larraìn, che attraverso le immagini ha deciso di ripercorrere il passato doloroso del Cile per poi lanciarsi nella filmografia e nell’analisi del potere occidentale  con un’immagine complessa come quella di Jackie Kennedy. Infine, Simon Reynolds, che ha dedicato una vita alla ricerca delle sottotracce musicali e della loro influenza nella nostra cultura pop, ora in tour con l’ultimo libro sul glam rock, vera oggettivazione di quel salto che dall’underground si è evoluto in amore per la trasgressione e l’esagerazione di cui ancora certe sfere si cibano, il tutto senza dimenticare che siamo sempre Men, before Icons.

 

 

94.70 – Indipendenza in FM

Negli anni ’70 uno dei maggiori contenitori di indipendenza era costituito dalle radio che, per pochi chilometri di distanza, riuscivano a trasmettere il loro segnale in FM. Veri e propri esperimenti culturali come quelli di Radio Alice a Bologna o anche infinitamente più piccoli, costituiti da emittenti homemade che raggiungevano pochi chilometri di distanza, ma che realizzavano un lavoro miniaturale di comunicazione del proprio gusto, e delle idee, con altre persone che non potevano vedersi faccia a faccia. Era una distanza reciproca, a volte ridotta dalle telefonate in redazione, poi dai messaggi di richiesta. Non sapere chi fosse l’interlocutore, se ce ne fosse stato uno, era parte di un processo di trasmissione positiva, non sottostante ancora a un feedback costretto. Me ne sono ricordato qualche giorno prima di Natale quando la piccola emittente della zona Reggio – Modena – Parma, dopo quarant’anni di FM, ha chiuso i battenti. K-Rock Radiostation è stata, in un particolare periodo della mia vita, quello preEmule e preVevo, uno dei contenitori di indipendenza al quale mi sono rivolto, il primo, oltre alla letteratura e a qualche rivista di musica, in grado di mostrarmi un’alternativa alle radio generaliste italiane. Non solo una questione personale, che riguarda ciò che si associa alla propria esperienza sentimentale nei confronti della zona in cui si è cresciuti, ma un valore aggiunto che l’ha influenzata. Non ascoltavo la radio da tanto tempo, ma ho trovato in qualche modo necessario essere presente alla lunghissima diretta dell’ultimo giorno di K-Rock. Un tributo, forse troppo nostalgico e a tratti ipocrita, verso un particolare referente che non ci sarà più. L’esperienza di ascoltatore comporta una totale sottomissione al DJ di turno e un atto di fede verso la selezione automatica che a un certo orario della notte ti portava a casa per le strade svuotate. Parti che si collegano una all’altra, senza visi, senza possibilità di cambiare direzione. Solo tu, il DJ, e qualche canzone. Una parte di casa. Ciao K-Rock.

 

Editoriale a cura di Francesco Pattacini

Progetto grafico di Giuseppe Garibaldo

 

 

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