Sono passati quattordici anni da quel lontano 2002 in cui un Devendra Banhart ventenne e dall’aspetto hippy si presentava al mondo indie-folk esibendo un campionario di musiche e testi che, tanto minimalisti quanto surreali, apparivano refrattari a qualsiasi etichetta ci si sforzasse di applicare loro. Era l’anno dell’uscita di Oh Me Oh My… The Way the Day Goes By the Sun Is Setting Dogs Are Dreaming Lovesongs of the Christmas Spirit, una collezione di filastrocche acidule e dall’arrangiamento scarno, a volte più “bozze” che canzoni vere e proprie, permeate di atmosfere oniriche che parevano provenire direttamente dai territori dell’inconscio. Una bellezza che risiedeva nell’imperfezione, nell’incompiutezza, nella graffiante e suggestiva veste low-fi a cui veniva affidato il racconto di un approccio alla musica differente, epurato da qualsiasi filtro non idoneo a lasciare l’originalissima impronta del suo creatore, che donava ai motivi il sapore retrò di vecchi nastri recuperati da un baule di cose dimenticate e appartenute a un’altra epoca.
La leggenda narra che quando, a Los Angeles, Michael Gira (Swans) si recò ad ascoltare questo strano giovane e a proporgli un contratto con la sua etichetta Young God, nel locale fosse presente anche Sammy Hagar, ex cantante dei Van Halen, che infastidito dalla performance dell’artista decise di mettere sul juke-box una vecchia gloria della sua band. Il cantautore sospese immediatamente il live per dirigersi verso Hagar e sputargli nel piatto. Non sappiamo quale sia la parte di verità in questo racconto e quanto sia stato invece costruito ad arte per arricchire l’aura di bizzarria che circonda Devendra Banhart sin dai suoi esordi; di sicuro Gira restò abbastanza impressionato dalla personalità musicale del cantautore da decidere di accoglierlo sotto la sua ala protettrice.
Nei sei dischi successivi il progetto del cantautore texano è cambiato ed esplora una molteplicità di possibilità espressive, sperimentando e frugando nell’inventario di suoni che ha a disposizione proprio come farebbe con una tavolozza di colori, richiamando quei chiaroscuri a cui dà vita nella sua parallela carriera di artista visivo. La sua cifra stilistica, anche quando abbraccia forme più canoniche e pacificate, sembra avere come comune denominatore una certa, riconoscibilissima, “imprendibilità”: mentre gli addetti ai lavori si scervellano per coniare nomenclature che ne identifichino il sound, Banhart, quasi fosse ignaro dei loro sforzi, resta fedele a se stesso e alla traiettoria, non lineare, che ha tracciato sinora. Un atto che, nel suo caso, significa mettere in musica scenari emotivi cangianti, appropriarsi di stilemi che si nutrono tanto di pop che del più rustico folk, attingere a culture diverse rendendole in grado di convivere e respirare in spazi aperti, poco affollati, indifferenti a ciò che musicalmente accade fuori dal loro microcosmo.
Forse è per questo che nessun ascoltatore affezionato ha accolto Mala con alzate di sopracciglia quando, affianco alle atmosfere sospese di brani come la stessa title track, o la bellissima The Ballad of Keenan Milton, e a un humus intriso dall’eco di ballate provenienti dalla tradizione ispano-americana, comparivano brani dal ritornello ammiccante come Won’t You Come Over e pezzi dal sapore pop o addirittura doo-wop come Crìstobal Risquez.
Eterogeneità, dunque, e ogni album inteso come una differente avventura. Allo stesso modo deve essere stata concepita questa nona fatica, Ape In Pink Marble, in cui il songwriter, giunto al trentacinquesimo anno d’età, dà vita al consueto caleidoscopio di generi e idee riprendendo in qualche modo il discorso interrotto con Mala, col quale presenta non pochi elementi di continuità.
Brano di apertura è una dolcissima Middle Names (dedicata all’amico Asa Ferry, frontman della band di Los Angeles Kind Heart & Coronets, scomparso di recente), impregnata di riverberi, sussurrata, con qualche passaggio studiatamente stonato che le regala un’aura vintage, il delicato fascino di un ritratto fotografico sbiadito dal tempo. Mentre la successiva Good Time Charlie è in odore di progressive ballads e anni Settanta (psych folk, qualcuno direbbe), in Jon Lends A Hand, il paesaggio sonoro che ci scivola affianco, senza prepararci alle improvvise frenate, ricorda per certi versi alcuni degli spunti presenti nel lavoro precedente: la voce si fa strada tra trilli delicati e una melodia morbida conclude (o meglio, non conclude: se mai sospende, proietta in avanti) il brano nell’iterazione ossessiva del verso as beautiful as you.
Il sorriso ironico dell’artista texano non si fa attendere oltre e sono epifanie come quella giocosa e surreale di Fancy Man o le derive funky e soul di Fig In Leather a sovvertire qualsiasi immagine del disco avesse iniziato a delinearsi sino a quel momento nella mente dell’ascoltatore: rimescolando tutte le carte in gioco è possibile creare la giusta atmosfera di attesa per introdurre un brano importante quale la ballata Mourner’s Dance (che forse non dispiacerebbe a Badalamenti) o una canzone dolorosamente intensa come Linda.
Certo, non è possibile negare che questa nona fatica non contenga degli episodi minori (qui e lì la riconoscibilità della cifra stilistica confina pericolosamente col “già sentito” e un pezzo come Souvenirs forse non lascerà un segno indelebile nella memoria dei fan). Inoltre, è anche vero che il percorso di ricerca verso una forma-canzone più compiuta, ma comunque in grado di adattarsi alla poliedricità di Banhart come un abito comodo, ha sacrificato molta della fulgida immediatezza che caratterizzava gli esordi. Le illuminazioni però, esattamente come in Mala, non mancano e soprattutto continua a sopravvivere quell’estro creativo che, sordo alle inclinazioni e ai giudizi di pubblico e critica, segue imperterrito un proprio personale percorso, scegliendo di ignorare quale brezza di passaggio gonfi le vele del mercato indie-folk contemporaneo.