Ci sono vite che sono maledette, anche quando la maledizione comincia con te. Nel duemilasette Bertrand Cantat torna a casa, in libertà condizionale, dopo aver scontato metà della pena per l’omicidio di Marie Trintignant. Torna dall’ex moglie, Kristina Ràdy, quella lasciata per la Trintignant, quella che lo aveva difeso durante tutto il processo, la madre dei suoi figli. E poi in una notte infernale Kristina si impicca nella casa di Bordeaux, mentre Cantat l’anti-eroe sta dormendo. Non siamo qui per parlare di questo, quanto di come una vita fottuta possa trasferirsi dentro un disco. La maestria rocker-sciamanica degli inizi, quella dei Noir Désir, diventa nel nuovo progetto dei Détroit una lenta perdizione sonora, con un sound che si fa più corposo e soffocante, coi suoi fantasmi tetri in sottofondo. La voce che graffia è roca, e Pascal Humbert (già bassista dei 16 Horsepower) la accompagna alla perfezione, in ogni incavo, così che fuori esce qualcosa di profondamente sbagliato che è inquietamente giusto. Non è Mark Lanegan a cantare in Null and Void ma sembra quasi di sentirne un’eco lontana, sarà per quel modo di pronunciare le parole, o è colpa dello strazio, dell’inglese, di quel deciso ”Here I am”: è probabilmente questo che ci tiene a ribadire Cantat dopo tanta assenza, la rinnovata esistenza di chi si sentiva soffocare a restare in silenzio.
Null and Void non è la sola canzone in inglese del disco, Glimmer in your eyes è una piccola perla che si dipana in chitarre e voce oscura, con un testo che racconta una storia spezzata: non sapremo mai a chi dirà quello che dice Cantat, chi invoca quando canta disperatamente “you’re far away”, e quali occhi stia ricordando quando ci vede dentro illuminarsi la parola glimmer. Classica ballata, che ricorda molto da vicino alcune cose recenti proprio di Mark Lanegan: e ci fende come uno sguardo glaciale e salvifico. C’è ancora tempo per mostri e fantasmi, questo disco potrebbe quasi scavare dentro certezze e sofferenze, questo disco narra le direzioni prese e perdute. Credo che il vero capolavoro in questo senso sia Ange de Désolation: tu vieni ancora ogni sera a visitare il mio giardino nascosto; urla magnetiche con una musica minimal in sottofondo, la lingua francese che riesce nell’impresa di fissare istantanee, lo splendore notturno delle risate, una ninna nanna che intona un dormi, angelo mio, dormi, l’eternità ci appartiene, come se poi esistesse un’eternità da qualche parte. Noi che inventiamo l’eternità per giustificare il presente.
“Mon enfant, ma soeur, Songe à la douceur. D’aller là-bas vivre ensemble! Aimer à loisir, Aimer et mourir. Au pays qui te ressemble!“, cantava Charles Baudelaire in Invito al Viaggio. Horizons è un viaggio perduto dentro un micro universo, una distesa profonda che si arrampica come sopra una scogliera, una ferita. Mi diverte che sei la mia musa, apre il disco questa frase nel testo di Ma Muse, dimmi che diverte anche te: credo che ci fosse una clausola per i testi di Cantat, credo che ci siano temi che non possa assolutamente toccare nei suoi testi. Perciò di cosa sta parlando non lo potremo sapere con certezza, questo è un disco di intuizioni, di battaglie affilate. Droit Dans Le Soleil è l’invito a continuare a mandare a memoria il giro continuo della Terra, canzone – nel vero senso in cui si parlava di canzone un tempo, coi suoi crocevia di anime insonni che guardano dritte dentro il sole. Malinconia: “e i tetti della città saranno vaghi uccelli malinconici”. C’è tempo per dei cori particolarmente no sense mentre Bertrand intona un Sa Majesté. C’è ancora il tempo per ricordare di che fine ha fatto la canzone francese di Charles Aznavour, e ritrovarla a tratti dentro Avec Le Temps.
No, il rock attraversa troppo poco Horizons: questa è la mutazione genetica di un cantautore. Resta Le Creux De Ta Main a difendere l’animo rock del cantautore che voleva essere Jim Morrison, dell’uomo che ha perduto qualcosa nel palmo della mano ma sa ancora gridare: c’è un pensiero che attraversa tutto il disco, un pensiero perduto che fa scrivere e riscrivere. “Scrivevo silenzi, notti, notavo l’inesprimibile”, questo è Rimbaud. Se la terra che brucia fa male non resta che fissare questo viaggio all’inferno. Poesia.